XXXI

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Trascinare Cairo dai piedi da sola, continuando ad adocchiare Airton alle mie spalle per assicurarmi che non sparisse nel nulla di nuovo, non era stato molto facile. Specialmente dovendo lottare con il fumo che si espandeva sempre di più nell'intero edificio, la puzza di oggetti bruciati e il caldo anomalo che mi faceva colare il sudore ai lati del viso, infastidendomi particolarmente.

Lasciai Cairo di fronte al portone della prigione, osservando il caos che si consumava fuori: fiamme ovunque, la cenere ricopriva quasi tutta la neve, i detenuti si confondevano con le guardie mentre alcuni gruppi si picchiavano fra di loro, altri correvano da una parte all'altra nel panico più totale e alcuni, anche se in pochi, nascondevano il viso con il colletto della maglia in attesa che tutto quello terminasse con un semplice schiocco di dita.

«Lo lasciamo qui», urlai ad Airton. «Qualcuno lo troverà e lo porterà in salvo da qualche parte». Visto che continuava a non rispondere mi voltai e trovai subito il suo sguardo già poggiato su di me.

Mi guardo, sì, ma non rispose. Anche quando inarcai un sopracciglio, chiedendomi se mi avesse sentito o meno, lui continuò a fare scena muta. A quel punto cominciai a pensare che potesse essere vittima di uno shock post traumatico, perciò mi avvicinai di un passo. E lui se ne allontanò di due.

Mi fermai all'istante, abbassando lo sguardo sulle sue scarpe di tela ancora macchiate di sangue. Mi si strinse il cuore. Si era allontanato da me, lui si era allontanato da me. Eppure non dissi nulla, non riuscii a pronunciare una sola parola, ma soltanto un verso sorpreso.

Quando si voltò, dandomi le spalle senza spiegare alcunché, mi ritrovai costretta a seguirlo dentro la prigione, un attuale gabbia di fuoco potenzialmente pericolosa per entrambi. Più volte lo chiamai, facendo presente il pericolo imminente che ci avrebbe potuto colpire da lì a poco, ma mi ignorò. Sembrava trovarsi in un'altra dimensione.

Mi costrinse a seguirli anche mentre saliva le scale, visto che non aveva intenzione di fermarsi, e anche se camminava a rilento, con una mano poggiata sulla costola rotta che gli doleva di più, aveva comunque una falcata più lunga della mia. Si infilò dentro l'ufficio di Theodore, che adesso era aperto e senza lui al suo interno.

Sicuramente Lysander doveva aver già trovato Rem ed era venuto a riprendere Theodore dal suo "nascondiglio" per portare entrambi in salvo fuori dell'edificio. Lì dove saremmo dovuti essere anche noi in realtà.

«Airton!», tuonai al limite della pazienza. «Non so se l'hai notato ma l'edificio è avvolto dalle fiamme! Devo portarti fuori il prima possibile per la tua incolumità». 

I suoi occhi saettarono verso di me quando si voltò. «Certo. Per te non sono nient'altro che una missione da portare a termine».

«Mi dispiace davvero tanto».

«Ti dispiace?», mi fulminò. «No che non ti dispiace! Se il tuo amore per me fosse stato sincero mi avresti detto la verità. Non mi avresti spezzato il cuore la prima volta, facendomi credere di essere stata assunta da mio padre, e non me l'avresti spezzato di nuovo adesso, permettendo ad uno stronzo di raccontare la verità che avrei voluto sentire dalla tua bocca!».

«Mi dispiace di averti mentito, ma non avevo scelta! Non avresti mai capito, proprio come non stai capendo adesso».

«Cosa dovrei capire? Cosa?!».

Deglutii a fatica, con la gola improvvisamente secca e dolorante. «Per tutto questo tempo ho cercato di agire mettendo il tuo bene sopra ogni cosa! Ho tentato con tutte le mie forze di tirarti fuori da qui e ci sono riuscita. Hai ottenuto uno sconto di pena. Verrai trasferito, non metterai più piede qui dentro».

«Una psicologa non può ottenere uno sconto di pena». Il suo sguardo scivolò sul mio corpo con sospetto, mista alla delusione dipinta sul volto. «Chi sei veramente?».

The Not HeardWhere stories live. Discover now