8 • LA COLONNA SONORA DELLA NOSTRA INFANZIA

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Mi rigiro tra le mani la lettera per il signor Davies mentre, vestita di tutto punto, aspetto che Peter mi venga a prendere per andare in ospedale da Suzy. Potrei chiedergli di accompagnarmi a consegnargliela e, con l'occasione, potrei rivedere Fox prima di tornare a Londra e, magari, fargli qualche domanda.

Il macchinone di Peter avanza su per il pendio e io ne approfitto per ravviarmi i capelli prima che lui sia qui.

«Ciao, Posy» mi dice, scendendo per venire ad aprirmi la portiera. «Sei veramente incantevole, questo pomeriggio».

Lo credo bene. Ho un trench molto avvitato, leggings neri pesanti, un paio di Timberland con pelliccia, un borsone in pelle e un ombrello leopardato che mi è costato una cifra che preferisco non ricordare.

Lui, dal canto suo, è semplicemente stupendo. Indossa un pratico giacchino di jeans sopra la sua iconica camicia a maniche corte e il consueto cappello da cowboy. Il suo macchinone sfreccia come un bolide fendendo la pioggia scrosciante e lui guida tenendo una mano sul volante e una sul cambio. Sfodera un sorriso devastante quando alla radio passano una delle sue canzoni e, in un impeto di modestia maledettamente sexy, allunga una mano per abbassare il volume.

«No, lascia, ti prego» gli dico, e lui mi lancia un'occhiata divertita quando alzo ulteriormente il volume per sovrastare il rumore della pioggia e inizio a canticchiare.

Potrebbe essere un appuntamento. Potrebbe essere il mio appuntamento con Peter Potato. E invece siamo arrivati proprio davanti all'ospedale in cui è ricoverata Suzy.

«Non devi preoccuparti» mi dice, una volta fermata la macchina nel parcheggio sotterraneo, slacciandosi la cintura. «Susan se la caverà, sono sicuro».

Raggiungiamo il piano in silenzio. O meglio, io sto in silenzio. Peter non fa che salutare ed essere salutato, stringere mani e scambiare parole cordiali con sconosciuti.

«Scusami, Posy» mi dice. «Anche quando la situazione non è delle migliori, non mi piace proprio essere sgarbato con i fan».

«Ci mancherebbe altro» rispondo e intanto sorrido con aria complice a un'infermiera che ci sta fissando.

L'infermiera, però, non ricambia il mio sorriso. Anzi, serissima in volto, si frappone tra noi e la porta tagliafuoco del reparto, sbarrandoci la strada.

«Qui non si può entrare, signori, mi dispiace» dice, e la sua voce mi suona insolitamente familiare.

«Sono sicuro che puoi fare un'eccezione» dice Peter, strizzandole l'occhio. «Dopo possiamo fare una foto insieme, magari».

La tizia non muta espressione e Peter sembra capire l'antifona.

«Oppure posso pagarti il disturbo» aggiunge.

«Il mio disturbo non è in vendita» risponde lei e, in quel momento, la riconosco.

«Wendy Woolford!» esclamo. «Sei tu, vero?»

«Ah, vi conoscete?» chiede Peter.

«Sì, eravamo in classe insieme» rispondo, poiché Wendy non sembra intenzionata ad aprire bocca. «Ti ricordi di me? Sono Giuseppina... Peppa».

«Sì, certo che mi ricordo» dice, e sorride appena.

O meglio, si sforza malamente di sorridere. In effetti, mi rendo conto, nonostante, per quel che mi ricordi, sia sempre stata molto carina, ha un aspetto terribile. I suoi capelli neri, che ricordavo lunghi, lisci e lucenti, sono ora lunghi fino alle spalle, opachi e sfibrati e sul suo volto pallido troneggiano due profonde occhiaie scure.

«Siamo venuti a trovare Susan» provo. «Puoi lasciarci passare?»

«No, Posy, lascia stare» interviene Peter. «Non vogliamo mettere la tua amica in condizione di dover infrangere le regole. Piuttosto, andrò a chiedere personalmente il permesso al primario. Sono certo che non ce lo negherà».

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