III.

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Alcuni viandanti, attraversando un bosco, si imbatterono, un giorno, in una taverna dalle dimensioni di un castello.

Si raccontarono l'un l'altro la propria storia, così che le loro vicende ed i loro destini s'incrociassero: ma non fu la fine di quel racconto.

Le carte sul tavolo erano solo un pretesto per dar vita ad alcune nuove storie, che, a loro volta, erano frutto di quell'incontro stesso.

Ce ne solo altre - altre storie - che, invece, non s'intrecciano mai; procedono come le rette matematiche parallele, come i binari di un treno, come neanche gli opposti che in fin fine si attraggono, se non al momento opportuno.

Era bastata una semplice occhiata a Taehyung perché la figura di un ragazzo, circa vent'enne, alto, moro, di bell'aspetto e piazzato gli si lasciasse in mente.

E da quel semplice sguardo, s'era immaginato la sagoma muoversi, dar vita ad un carattere proprio, che si idealizzava pian piano dai tratti che per un breve attimo aveva visto.

Ma tale non era definibile come incontro, perché gl'incontri, anche quelli casuali, avvengono a parole ed a sguardi.

Solo quello di Taehyung s'era incrociato con una immagine muta, che - sì, sbraitava - ma non gli diceva niente d'interessante. Era solo attratto dall'aspetto.

E lo pensava prima di addormentarsi, nei momenti liberi, quando fissava il computer in attesa di una nuova idea geniale per i suoi saggi: un'altra tesi da argomentare. Lo pensava nei momenti vuoti, amando che quella piccola persona occupasse i tempi morti fra le fughe con Marcel e le sue conferenze.

La sagoma senza nome e senza carattere, spesso, si lamentava nella sua testa, così come indaffarata fra i banchi di un caffè commercializzato. Jeongguk, all'opera presso Starbucks, ripuliva il bancone. Era l'orario di chiusura: il suo preferito, perché significava solo il ritorno a casa.

"Jeongguk, cos'hai?" Namjoon stava spazzando sul pavimento. "Non mi hai rivolto la parola per tutto il giorno."

L'ho fatto - avrebbe voluto rispondergli, ma il suo voto di silenzio glielo impediva. E, dunque, Namjoon, che non era in torto, avrebbe detto "Solo per qualche misero Chocolate Chips Frappuccino?". Se non per qualche ordine dettato a fatica e degli sguardi rudi, a tratti dispregiativi, Jeongguk non gli aveva davvero parlato.

Oh, Jeongguk! Perché non riesci a resistere. Sei solo un codardo: non sei un uomo. Quel suo stupido puntiglio lo seguiva dalla sera al Marais.

Non bastava dimostrarsi così come si era proposto, nemmeno gli sarebbe bastato simulare una certa antipatia verso l'amico.

"Per favore..." Namjoon adagiò una mano sul braccio, e col pollice - lo sapeva, anche se a Jeongguk desse fastidio - strusciava la stoffa sopra il braccio intirizzito. Ops! le sue labbra si chiusero a cuore.

"No, non ti odio." un sospiro di sollievo da parte di Jeongguk; uno altrettanto da parte di Namjoon, anche se, poi infondo, sapeva che quello era solo orgoglio: niente di più.

"Dimmi." e di fatti, non gli bastava altro che una piccola parola dolce per rompere il guscio, che si mostrava come tenebra a chi non conoscesse Jeongguk.

"Cosa?"

"Dimmi." - ancora. Ancora, ed ancora; ma ancora niente. Jeongguk ribassò gli occhi sul piano di pietra per pulire sul pulito e guardare delle macchie immaginarie.

Ma poi: "Mi ha dato fastidio che tu non mi abbia detto la verità." e, se non gliel'avesse fatta considerare in quel modo, lui sarebbe stato il carnefice. Namjoon era quello che, per Jeongguk, doveva sentirsi il bisogno di scuse.

MelRose | VKDove le storie prendono vita. Scoprilo ora