XXIV.I {special}

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24 giugno, 2023

Definire cose, fatti, ed avvenimenti in modo netto e critico era ciò che Kim Taehyung aveva sempre fatto. Mal calcolava, e di rado, gli imprevisti: meglio se questi non ci fossero stati, meglio se venissero del tutto rimossi in una perfetta sintesi fra bene e male. Taehyung, sapeva, non esistesse né bene, né male; Taehyung sapeva esistesse il male nel bene ed il bene nel male, perché quella era parte della sua sintesi perfetta mentale con cui affrontava il modo di analizzar le cose.

Il ventiquattro giugno, di quello stesso anno, Taehyung era ormai libero dall'oppressione che si era sempre giustificato a schemi prefissati; il rapporti fra sessualità e potere era ormai regolato, compreso, capito e digerito, e stava, ora, allo scrittore stesso portare a termine quel suo capolavoro che nasceva dall'esperienza mista alla riflessione: Taehyung era Taehyung, perché la sua, fra le molte delle identità fluide, si era definita, rimanendo il quello spettro ampio, ma libera dalla pressione che gli stava alle spalle.

Place de la République. Alla fermata dell'autobus nella piazza stessa, una coltre di bandiere si levava, sventolavano, insieme ai ventagli, festoni e nastri del medesimo colore: del medesimo colore dell'arcobaleno. Chi si arrampicava per di su della balaustra della fermata dell'autobus, chi si fermava sopra la tettoia di essa per innalzare la propria identità al cielo.

Taehyung, in quel rumoroso baccano di gioia e libertà, guardava l'orizzonte dal carro del vincitore. Un carro per davvero, il carro rappresentativo di uno di quei collettivi da cui proveniva; e se ne stava lì, ad ammirare la libertà che prendeva forma, si materializzava fra il colore e le numerose facce sconosciute, con sottobraccio una copia de La Révolte Queer.

I crini menta, mossi dal vento, quella leggera brezza estiva che arrivava dalla Senna fino alla Place de la République: erano mossi, ondulati, sbarazzini e scapigliati, e non portava il solito maglioncino, il solito basco colorato e gli occhiali antichi da scrittore dell'altra epoca. Camminava su e giù, per il carro scoperchiato, a torso nudo: il suo corpo esile, secco e rifinito, longilineo e ricurvo al fondo del dorso, con un accenno flebile di massa muscolare là dove gli iniziasse la parte bassa del ventre. Taehyung sventolava una bandiera in sua rappresentanza: gialla, bianca, viola e nera, e se la portava appoggiata sulla spalla destra, mentre nell'altra il suo libro.

Era quella; una rivolta pazza, una rivolta strana, una rivolta queer quella che si prospettava Taehyung, e che aveva prospettato per tutto il tempo in cui era sottostato agli schemi di chi la sua soggettività la forzasse, la scrivesse, proprio la reprimesse. Perché per Taehyung queer non significava solo esser superficialmente senza etichette, per lui comportava tutt'una serie di atteggiamenti eversivi e liberatori che anche lo portassero verso una politica neutra e rispettosa di ogni soggettività, ma che soprattutto mirassero a decostruire quel vecchio sistema marcio e stantio che si proponeva di soffocare il rapporto fra la sessualità ed il soggetto, senza realizzarla e chiudendola in gabbie prefissati alla normalità. La normalità per Taehyung era la vera malattia, perché significava solo omologazione ad un certo potere, di cui non si potesse mai trovare il capo, quel potere neocapitalistico che condanna, dunque, ogni soggettività ad essere performante, orrendamente performante.

Così diceva ne La Révolte Queer, che l'ideologia neoliberista avesse danneggiato l'altro, quel sesso che non viveva privilegiato, ad una costrizione eroica, per cui la persona è la sola artefice del proprio destino. Ma il destino, talvolta, non solo è quel che ognuno di noi andiamo a crearci; assume, per diverse circostanze, diverse sembianze, ed a seconda delle tali il nostro percorso cambia. E, dunque, la soggettività stessa, di quella rivolta pazza e strana di Taehyung non solo è frutto dei suoi obiettivi, ma anche delle circostanze.

MelRose | VKWhere stories live. Discover now