Capitolo Dieci

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CAPITOLO DIECI

Claudio



15 gennaio

Casa di Mario è esattamente come l'abbiamo lasciata noi l'ultima volta in cui siamo venuti a sistemarla. Non è ancora completamente in ordine, ma tutto sommato abbiamo fatto un buon lavoro.

La osservo, piccola e buia, mentre scalzo percorro quei metri che dividono la camera da letto dal salotto e la cucina.

Decido di far cambiare un po' l'aria prima che Mario si svegli, così, dopo essermi dato una rinfrescata veloce in bagno, spalanco le finestre e mi concedo qualche minuto da solo, affacciato ad una di esse, a riflettere. L'aria fredda e pungente di gennaio mi fa rabbrividire la pelle, eppure sento di non percepire il gelo entrarmi veramente dentro. È come se ci fosse uno scudo a bloccare questa corrente d'aria.
E questo scudo sono le mille preoccupazioni che sto provando ininterrottamente da ore. Da quando l'ho visto fuori dalla comunità. Da quando ha iniziato a ripetere di non valere niente, di essere un giocattolo rotto, un involucro vuoto. Da quando mi ha detto di aver fatto una cazzata. Da quando ha provato a combattere i suoi demoni sfruttando il mio corpo. Da quando Mario è crollato addosso a me, supplicandomi di portarlo a casa e di rimanere con lui.

"Clà", mi sento richiamare dopo qualche attimo di totale smarrimento. Mario letteralmente a pezzi ed in lacrime addosso a me, io completamente pietrificato sotto di lui, inerme.
"Ti- ti prego. Portami a casa", ripete, alzando il viso per guardarmi negli occhi. "Non-non ce la faccio più", ammette, respirando a fatica, mentre debolmente si aggrappa al mio maglioncino. Ed è solo in questo momento, quando mi accorgo di quanto si stia sentendo male non solo psicologicamente ma anche fisicamente, che il mio cervello torna a funzionare, risvegliandosi da quel blackout improvviso.
"Hey, hey, hey", sussurro, sbattendo ripetutamente gli occhi uscendo dal mio stato di trance. Gli prendo il viso tra le mani e "shhh, è tutto ok, va bene?", gli chiedo senza ricevere alcuna risposta se non respiri più affannosi e occhi vacui. "Ascoltami, Mario. Non è successo niente. Non preoccuparti. Io sono qui, ok? Ora ti porto a casa, va bene?", gli accarezzo il volto con movimenti concentrici, soffermandomi sulle tempie dove so che a lui porta maggiore sollievo. Continuo a massaggiarlo con una mano mentre con l'altra mi affretto ad aprire un po' la portiera della macchina per far sì che passi un po' d'aria, ma subito le sue dita si aggrappano al mio braccio, spaventato e tremante.
"Clà...".
"Sono qui", gli accarezzo una guancia, "non piangere e concentrati sul tuo respiro, d'accordo? Segui il mio", provo a farlo calmare mentre lentamente raggiungo una sua mano e stringendola me la porto sul petto. Su e giù, respiri lunghi e profondi. E lo osservo nel momento in cui chiude gli occhi e si concentra sul movimento regolare del mio torace, provando a rendere maggiormente stabile anche il suo, e io gli ripeto parole dolci e di conforto perché non c'è niente di più importante al mondo della sua salute. Non ci sono giorni di distacco, giorni di insulti o di odio che tengano. Mario sarà sempre la mia priorità.

Quando finalmente si calma lo faccio adagiare nel sedile del passeggero mentre io prendo posto alla guida della sua smart. Gli allaccio la cintura e dopo aver messo in moto appoggio la mano destra sulla sua gamba, mantenendo un contatto diretto con lui perché so che in questo momento è ciò di cui ha bisogno.

Mi passo fiaccamente una mano sul volto, stanco per il sonno tormentato delle ultime notti e di quello totalmente assente di quest'ultima.
Una volta arrivati a casa di Mario, infatti, farlo addormentare è stata un'impresa da Titani. Continuava a pormi domande sconnesse, assicurandosi che io tenessi a lui nonostante tutto, alternate a "scusami", "non volevo" e "non andare via" ripetuti ad intervalli regolari.
È che stare sotto alle coperte con lui, le gambe aggrovigliate e le mani ad accarezzargli il volto esausto... non gli bastava. E i mille tentativi di farlo tranquillizzare sembravano solo agitarlo di più perché le sue parole aumentavano e la sua presa attorno alla stoffa della mia canottiera si intensificava. Ma poi il giusto rimedio al suo tormento è arrivato in maniera naturale quando all'ennesimo suo "non andartene, ti prego" gli ho risposto che "non potrei mai andarmene! Perché ti amo, Mario, ti amo". 
Alla fine lui si è addormentato addosso a me, mentre io non ho chiuso occhio per tutta la notte. Troppi pensieri, troppe preoccupazioni, troppe emozioni da elaborare. E poi il calore del corpo di Mario dormiente di nuovo sulla mia pelle, dopo giorni di perdizione e allontanamento.
Troppe cose tutte assieme per riuscire a staccare la mente e chiudere gli occhi.

Chiudo la finestra e subito dopo anche le altre, per non far abbassare troppo la temperatura interna, e poi torno in camera per svegliare, a malincuore, Mario.

Grugnisce, lamentandosi della mia interruzione al suo sonno, portandosi un braccio sopra agli occhi.

"Mario...", lo richiamo, scuotendolo leggermente, "ti volevo solo avvisare che devo andare a lavoro. Dopo torno. Ok?".

"...no...", emette un suono di disapprovazione, abbassando il braccio e aprendo finalmente gli occhi. "Dobbiamo... dobbiamo parlare. Credo", sussurra agitandosi leggermente.

"Certo che dobbiamo parlare. Quando torno, però", mi abbasso a lasciargli un bacio leggero tra i capelli. Nonostante tutto. "Posso prendere la tua macchina? Sai, la mia è ancora nel parcheggio davanti alla comunità", gli ricordo.

"No. No, cioè, sì. Ma no. Ti accompagno io", farfuglia, scoprendosi e mettendosi a sedere sul letto. Si strofina gli occhi e poi si alza.

"Non è necessario, Mario. Rimani a dormire ancora un po'. Appena finisco il turno te la riporto sana e salva, promesso".

"No, ma non è per la macchina. È che...", si zittisce mentre infila una felpa, "è che... vorrei stare un po' con te", riprende il discorso facendo aumentare i miei battiti cardiaci, "se a te fa piacere ovviamente. Oddio magari a te non fa piacere, che idiota. No, ok, hai ragione. Prendi la macchina, certo che puoi", inizia a borbottare sfilandosi la felpa e gettandola alla rinfusa nell'armadio.

"Mario...", lo richiamo avvicinandomi e afferrandolo per le spalle, "mi farebbe piacere", scandisco bene le parole così da assicurarmi che mi stia ascoltando realmente, "andiamo a fare colazione assieme, ti va? Qui non c'è niente da mangiare, pensavo di passare al bar visto che sono un po' in anticipo", dico riacciuffando la felpa e infilandogliela.

"Oh. Sì, ok. Va bene. Grazie".

"Di cosa?".

"Di sapermi sempre ritrovare quando mi abbandono".


*


Osservare la comunità con Mario seduto nel posto accanto è... strano. E pensare che quella grande casa è il luogo che ci ha visti incontrare, conoscere ed innamorare l'uno dell'altro è ancora più strano, soprattutto alla luce di tutti gli ultimi avvenimenti accaduti tra di noi.
Sono perso nei miei pensieri quando la voce di Mario mi riporta alla realtà.

"Non... non è che fai tardi?", mi domanda probabilmente accorgendosi che non accenno a muovermi dal mio posto né a parlare. D'altronde, anche la colazione al bar è stata piuttosto silenziosa e sicuramente si starà ponendo un'infinità di domande sul mio comportamento, sullo scudo che ho messo su.
Do un'occhiata veloce all'ora sul cruscotto e sì, ha ragione.

"Sì, hai ragione", glielo dico, infatti, mentre mi strofino gli occhi, "stavo... pensando. Non mi sono accorto del tempo che passava", gli spiego.

Lo sento sospirare al mio fianco.

"Clà... visto che siamo qui davanti... ci sono stato davvero dal dottor Sommo ieri".

"Sì, lo so. L'ho capito dopo che non eri qui per me", accenno un sorriso tirato, ripensando alle sue parole e ai suoi comportamenti.

"Mi... mi dispiace".

"Non importa", gli dico mentre scendo dall'auto e lui fa lo stesso per prendere il posto del guidatore. "Abbiamo tante cose di cui parlare, tantissime. Mi aspetti a casa tua?", domando abbassandomi a lasciargli un bacio sulla fronte per calmarlo perché so che si sta agitando.

Annuisce e poi aziona la macchina. Gli chiudo la portiera e lo vedo sospirare e poi mordersi il labbro prima di mettere in marcia e sfrecciare via.

E se io rimango qui fuori qualche minuto in più a sperare di vederlo tornare indietro per un bacio o un abbraccio capace di colmare i vuoti e le angosce che sento dentro come provo a fare io con lui... beh, questo non gli è dato saperlo.


"Ti eviterei certe salite
suggerendoti pianure."
(Un'altra vita - Fabrizio Moro)

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