XXIII

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C'era una cosa, fra le altre mille, che jimin non riusciva a capire.
Era la sensazione che provava quando stava con Jooheon, quella incomprensibile stretta di felicità che sembrava avvolgergli il cuore per poterlo cullare dolcemente. A volte, quand'era da solo, si chiedeva se il maggiore non gli piacesse.
Non era solo del sesso occasionale fra loro, non lo era perché i loro incontri non si limitavano al spogliarsi. Jimin passava le sere al pub solo per stare con lui, anche per bere gratis naturalmente, ma pur sempre per Jooheon, per rubargli qualche bacio e alleggerirgli il lavoro.
Le conversazioni con cui erano soliti intrattenersi non erano tipiche da due persone che non tengono l'una all'altra, il castano si era aperto con lui raccontandogli della sua famiglia, di quanto i suoi fossero severi, sempre pronti a fargli notare un possibile errore. Giocavano a freccette sulla sua schiena.
Erano sempre stati genitori esigenti, sia nell'ambito scolastico sia riguardo le sue relazioni sociali, e quando lo avevano scoperto con un ragazzo in camera, avevano cominciato a guardarlo quasi come se si fosse trasformato in un kodama.
Quand'era piccolo, sua nonna gli raccontava ogni settimana una storia diversa, gli presentava pazientemente ogni essere della demologia giapponese, perdendosi in lunghi e macabri racconti. I kodama erano dei piccoli spiriti viventi nelle foreste, apparentemente innocui grazie all'aspetto di una pianta, ma con un potere tale da scatenare terremoti, frane e straripamenti. Quella era forse una delle storie che più lo avevano intrigato, per quanto un bambino di 8 anni potesse essere intrigato e non spaventato da quel genere di racconti. Non aveva mai capito perché la nonna si soffermasse spesso a raccontargli quelle cose, non lo aveva capito fino a qualche anno prima, quando sotto effetto dei medicinali necessari alla cura per la malattia che lentamente la stava portando via, gli aveva sussurrato una frase, in grado di farlo inorridire e rabbrividire allo stesso tempo: «non lasciare che il terrore ti paralizzi, la conoscenza è la chiave per la salvezza.»
I kodomi comunque erano creature malvagie, dispettose, trovavano divertimento nel confondere i viaggiatori che attraversavano le foreste durante la notte, facendo sentire loro eco di voci, richieste di aiuto e urla che li portavano ad impazzire. Probabilmente quella era l'unica cosa che Jooheon poteva avere in comune con loro, la capacità di confondere, di far perdere la testa, di inebriare i sensi e farti dubitare persino del tuo stesso riflesso.
Jooheon era sempre stato bellissimo, certo anche lui aveva passato quel periodo dell'adolescenza in cui la cosa più carina che tu possa avere sono gli adesivi di Dragon Ball attaccati sullo zaino. Ma in generale, la bellezza lo aveva caratterizzato fin da piccolo, regalandogli quel viso che tanto faceva gioire jimin, e che, nonostante la sua attenzione fosse dedicata totalmente ai ragazzi, faceva impazzire tutte le ragazzine del liceo.
Non aveva mai fatto outing, non gli sembrava necessario creare tutta quella situazione di tensione, nemmeno avesse dovuto dire loro di avere l'HIV. Era gay, ma erano comunque affari suoi, non trovava motivazione di dover fare una riunione per discutere con qualcuno il suo orientamento sessuale. E forse era proprio quello che di più lo faceva impazzire, era la capacità di Jooheon di vivere come più desiderava, nella sua completa libertà, senza però mai sfociare nella bolla di un altro.
Se ci pensava, quella era una differenza importante.
Si era perso fra i pensieri riguardanti quel bel castano, ma non aveva di certo messo da parte Taehyung. Perché per quanto quel loro rapporto potesse essere platonico, era qualcosa a cui jimin non riusciva a rinunciare. In qualche modo, sapeva fosse anche colpa sua se non riusciva a lasciarsi andare totalmente con Jooheon.

«Jiminie? Andiamo?»
La voce del maggiore lo sveglia dal suo sogno ad occhi aperti, così sbatte le palpebre un paio di volte, poi sorride e con un piccolo saltello scende dallo sgabello su cui si era seduto ore prima. Il tempo era volato, probabilmente si era perso nei pensieri più volte di quante avesse effettivamente contato.

«Vuoi fare un giro o vuoi che ti riporti a casa?»
Chiese dolcemente il maggiore, aprendogli la porta del locale, per farlo passare per primo. Jimin sembrava silenzioso.

«Sei stanco Joo, accompagnami a casa e vai a riposare anche tu.»
Rispose sorridendo, riconoscendo poco lontano la macchina lucida del suo accompagnatore.
L'idea di rimanere solo in realtà lo terrorizzava, aveva paura dei pensieri che gli avrebbero inondato la testa, perché fino ad allora aveva solo cercato di non ricordare cosa lo avesse spinto ad uscire di casa.
Improvvisamente più rigido, si avvió verso l'auto, aspettando con smania che questa venisse aperta.

«Va' tutto bene?»
Domandò con tono basso il maggiore, voltandosi verso di lui e mostrandogli l'espressione preoccupata che aveva in viso. Jimin annuì, tentando di rilassarsi sul sedile.
Non era mai stato un problema il contatto fisico, lui stesso durante la serata aveva rubato qualche bacio a Joo, eppure si era ritrovato a scostarsi malamente dalla sua presa, quando quest'ultimo aveva provato a poggiare la mano libera sulla sua coscia.
Un cipiglio gli si era formato sul viso, voleva davvero parlare con Jimin e chiedergli cosa stesse succedendo, ma lo conosceva, e sapeva che non avrebbe ottenuto risposte.
Quando Jimin stava male, aveva bisogno di stare da solo con qualcuno. Un controsenso probabilmente, ma lui stesso lo era.
Un gatto randagio capace di fare le fusa, un liquore dolce quanto il miele, una puttana che arrossisce timidamente.
Jimin era a modo suo, voleva compagnia ma non grandi discorsi, gli piaceva sfogarsi con le poche persone che reputava meritevoli, ma doveva essere lui a volerlo, a sentirsi pronto per elaborare il dolore.
E ciò che gli era successo era davvero troppo, continuava a masticare e macinare quel peso sullo stomaco, ma non riusciva a digerirlo, non riusciva a capire.

«Fermati!»
Gridò all'improvviso, facendo sobbalzare il castano che immediatamente accostò sul ciglio della strada.

«Che succ-»
Ma jimin non era pronto.
«Scusa Joo, devo.. devo andare, okay? Scusa.»
E proprio come un randagio, era scappato via verso un vicolo.

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