10 - Fanboy

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«Jem! Ehi, Jem!»

Dalla fila all'ingresso del Black Moon, Dan agitò la mano per attirare la sua attenzione – come se fosse possibile non notarlo.

«Devi uscire almeno una sera con noi» aveva insistito quella mattina fuori dall'aula in pausa caffè, alludendo ai suoi compagni di scorribande notturne. Dopo un'iniziale titubanza, alla fine aveva accettato l'invito a quel going clubbing. Anche perché non aveva di meglio da fare quella sera.

«È tanto che aspetti?» s'informò affiancandolo.

«No no, tranquillo. E poi sto a cinque minuti da qui» lo rassicurò il biondo gettando una sigaretta consumata e accennando ai palazzi alle loro spalle, in direzione della stazione di Brixton da cui veniva Jem.

Indifferente allo sbalzo termico rispetto alle ore diurne, l'anglo-irlandese sfoggiava con disinvoltura una t-shirt bianca che si tendeva su braccia e pettorali, e dei jeans tagliati all'altezza delle ginocchia. Jem invece, freddoloso com'era, indossava i suoi pantaloni più pesanti e un maglioncino in cotone. Tirò su la zip del giubbotto nero in pelle per contrastare la pungente brezza serale che si faceva sentire. Almeno per lui.

«Sara?»

«Serata binge-watching con le amiche. Non rientrerà prima di domani mattina.»

«Aaaah» Dan sgranò gli occhi e annuì lentamente. «Per questo ci degni della tua presenza? Ti annoiavi a stare da solo.»

«Cosa ti fa pensare che mi annoi a stare da solo?»

Dan soffocò una risata di fronte al suo cipiglio serio. «Va bene. Vorrà dire che farò del mio meglio per non farti avere rimpianti.»

«Ti vedo ottimista.»

«Devo esserlo. Per controbilanciare.»

«Bene. Anche perché hai solo una possibilità» fu il lapidario monito di Jem.

«Cercherò di non sprecarla, allora» promise Dan prima che i buttafuori controllassero i documenti e li facessero entrare. Dopo aver pagato, percorsero un ampio corridoio dalle pareti scure che faceva da anticamera alla sala principale: una pista da ballo circolare – la luna nera – e due bar agli estremi opposti che fungevano da astri di riferimento in quella movimentata semioscurità; di fronte, il dj set era impegnato a mixare una sequenza di musica elettronica che rimbombava nelle orecchie e nel petto.

«Eccoli!»

Oltre la calca che sostava al guardaroba, dei ragazzi risposero al saluto di Dan. I due si avvicinarono. A ogni passo, i decibel aumentavano e le distanze si riducevano drasticamente.

Non pensare al casino.

Non pensare al buio.

Non pensare agli ubriachi.

Non pensare a niente.

«Jem, loro sono i miei amici» esordì Dan indicando un gruppetto composto da quattro ragazzi. «Noah l'hai già conosciuto» disse indicandogli il tipo scarmigliato e con l'aria da delinquente con cui era stata antipatia a prima vista alla festa di Vicky. Fedele alla propria linea di condotta, quel poco di buono sfoggiò un'espressione asettica e vagamente intimidatoria prima di migrare verso un altro gruppo poco lontano.

Bravo, gira al largo che il sentimento è ricambiato.

«Liam, Aiden e Thomas» continuò Dan mentre gli altri ragazzi gli stringevano a turno la mano. Associare quei nomi a dei volti nuovi e scarsamente illuminati era un'impresa, pensò Jem. Cercò di individuare e memorizzare al volo qualcosa che li caratterizzasse: il primo era il più piccolo di statura, aveva dei ricci corti e scuri e un neo sulla guancia; il secondo era biondo e con una camicia maniche corte a scacchi e il terzo era un ragazzo nero, alto e magro con dei rasta raccolti e tirati su alla Ghali.

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