18 - Die and Reborn

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Lo sguardo azzurro di Dan era fisso sul pallone ovale stretto tra le mani. Jem lo guardava a bocca aperta, sconvolto dal resoconto del suo recente passato.

La fallita relazione con Henry, gli insulti, l'umiliazione, l'aggressione, il ricovero, l'addio.

Ecco perché aveva abbandonato il rugby.

Jem stentava a credere che quella dolorosa storia appartenesse al ragazzo seduto con lui sull'erba verdissima di Hyde Park. Quel ragazzo solido e forte che ammaliava tutti coi suoi sorrisi spavaldi, che aveva fascino ed energia da vendere, aveva vissuto un trauma sulla sua pelle. Una violenza fisica e morale.

Provò un improvviso moto di solidarietà nei suoi confronti.

Anche lui aveva dovuto "seppellire" una persona cara e, con essa, una parte di sé. Anche lui aveva subìto uno strappo interiore. Anche lui aveva dovuto raccogliere i pezzi e ricucirsi.

Avrebbe voluto dirgli qualcosa, ma gli risultò più difficile del previsto.

«Dan, io...» cominciò esitante. Dan sollevò il capo; i suoi grandi occhi blu non erano luminosi e smaliziati stavolta. Jem s'interruppe, fece un profondo respiro e riprese. «Mi dispiace tantissimo per quello che hai passato. Dev'essere stato...»

«Terribile? Devastante? Sì, lo è stato» completò Dan mandando giù il groppo che gli si era formato in gola. «Comunque, non mi piace abbandonarmi al vittimismo. È andata così. È passato.»

«Ma pensarci ti fa ancora male.»

«Un po' sì, lo ammetto» Dan fece un sorriso triste e alzò gli occhi al cielo coperto di nuvole. «Quel giorno, negli spogliatoi, ciò che mi fece più male fu che nessuno di loro mosse un dito per intervenire, incluso Henry. Se non fosse arrivato il mister a separarci, non so come sarebbe finita. Eravamo come due leoni nell'arena, pronti a sbranarci l'un l'altro.»

«E se i tuoi compagni fossero rimasti immobili non per indifferenza, ma perché non sapevano come prendere posizione? Pensa se ti avessero dato contro...»

«Preferisco non pensarci» sentenziò Dan irrigidendosi. Poi la sua voce si ammorbidì. «A dire il vero, anche il loro non agire è stato un segnale per Richard: gli ha fatto capire che non tutti la pensavano come lui. Ma allora io non la vedevo così. L'unica cosa che vedevo era che non si erano schierati, e li odiavo per questo. Ero accecato dalla rabbia e dal dolore, ce l'avevo col mondo intero e, soprattutto, con me stesso per essermi lasciato indebolire dai sentimenti.»

«E, adesso, come stai?» volle sapere Jem.

«Fisicamente? Dopo gli interventi, sono stato fermo per quasi un anno ma ora sto bene. Certo, ho dovuto fare delle rinunce, per prudenza, ma l'importante è essere guarito. Adesso mi alleno senza problemi. Di sicuro, avere un padre fisioterapista ha aiutato: mi ha rimesso in sesto» disse con un tono scherzoso che, però, non camuffava del tutto l'amarezza di aver dovuto, di fatto, smettere di giocare a rugby.

«Mia madre, invece, si è presa cura di questo» disse portandosi una mano al cuore. «Ha passato le ore in ospedale a leggermi i classici della letteratura inglese che avevamo in casa e che io mai avevo degnato di uno sguardo. Lei insegna inglese al liceo, sai. Dice che laddove si ferma la scienza, comincia la fiction. Ha sempre amato diffondere la cultura inglese e, soprattutto, tirar fuori il meglio dai suoi studenti...»

«E con te ci è riuscita?»

«Direi di sì» un breve sorriso fiorì sulle labbra di Dan. «È merito suo se ho deciso di iscrivermi all'università e studiare letteratura. Dovevi sentirla leggere il De Profundis... ah, mi aprì una nuova finestra sul mondo! Mi resi conto di quanta bellezza avessi perso concentrandomi solo ed esclusivamente sul rugby. Decisi che volevo saperne di più e... beh, eccomi qua.»

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