34 - Of Dream and Reality

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«Can I?»

«Non avevi niente di meglio da fare?»

«Ah, allora sei vivo!»

Dan si chiuse il portone alle spalle, lasciò il giubbotto di jeans sulla poltroncina all'ingresso ed entrò in salotto.

Trovò Jem al pianoforte, nero e curvo come una parentesi, gli occhi fissi sulle dita che scandivano note lunghe e basse sui lucidi denti d'avorio.

«Scusa il disturbo, sono passato per sapere come stai. Non ti sei più fatto sentire.»

«Mmm.»

«Capito, non ti va di parlare» dedusse Dan. «Ma, almeno, mangi?»

«Mmm.»

«Vabbè, nel dubbio ti ho portato una cosa.»

Dan si fece avanti, in mano una scatola quadrata col logo della pasticceria in cui lavorava. «Torta caffè e cioccolato. Una fetta di questa e passa tutto» ironizzò porgendogliela.

Non lo vedeva dal giorno dello scontro con Sara all'università. Era stata una scenata epica e Jem ne era uscito distrutto. Ignorava i suoi messaggi e chiamate da giorni. Preoccupato per le sue condizioni psicofisiche, aveva deciso di passare a trovarlo.

«Grazie del pensiero» disse il moro senza voltarsi. «Non dovevi disturbarti. Più tardi l'assaggio. La metteresti in frigo, per favore?» aggiunse senza smettere di suonare, né degnarlo di uno sguardo.

Il distacco con cui l'aveva trattato lasciò Dan basito: al suo posto, avrebbe addentato con impazienza il dolce e mostrato un minimo di apprezzamento. A quel punto, gli avrebbe detto che l'aveva fatta con le sue mani, decorazioni a tema musicale incluse.

Siccome era andata diversamente, fargli quella rivelazione gli parve privo di senso e lasciò cadere la cosa.

Depositò la torta all'interno di un frigo semi vuoto e tornò in salotto; si accostò al piano e lo guardò suonare in silenzio. Rimase lì ad assorbire note lugubri che – a giudicare dallo sguardo assente del moro – non seguivano una rotta predefinita. Era in mare aperto e navigava senza bussola, né meta.

Suonava quello che sentiva, come il suo amato Novecento: suoni malinconici che, dettati dal cuore, scorrevano dalle dita ai tasti. L'oceano era la sua musica e la sua musica era l'oceano. C'era di tutto dentro a quella musica: il pianto del bambino sballottato dalla traversata, l'urlo del naufrago, il fragore della tempesta.

«M'insegni qualcosa?» Dan interruppe di punto in bianco quella tetra melodia che stava deprimendo anche lui. Jem sollevò il capo e gli lanciò un'occhiata affranta e indisposta. Aveva occhiaie violacee e palpebre pesanti.

«Scusa, non sono in vena» tagliò corto chinandosi nuovamente sui tasti.

«E quando lo sarai mai?» ironizzò il biondo. «Please!» aggiunse supplichevole.

Jem parve pensarci su per qualche secondo, poi scivolò su un lato dello sgabello rettangolare per fargli spazio. Dan si accomodò al suo fianco, soddisfatto, e gli rivolse un'espressione carica di attesa.

«Allora, maestro?»

«Seguimi» si limitò a dire Jem.

Premette una serie di tasti con la mano destra in lenta successione e attese che Dan ripetesse. Assicuratosi che avesse memorizzato la sequenza, aggiunse altre note, e così via, in un'alternanza di parti che durò alcuni minuti. Jem suonava, si fermava e osservava Dan imitare i suoi movimenti: a volte riusciva a stargli dietro, a volte no, ma si stava impegnando.

Dan, dal canto suo, aveva la sensazione che Jem si fosse ridestato dal torpore in cui l'aveva trovato: lo monitorava e correggeva con cura, poi lo invitava a riprovare.

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