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Il persecutore poté rilassare i muscoli e trarre un respiro di sollievo non appena la testa recisa svanì inghiottita dai flutti. La precisione dei suoi fendenti non era stata scalfita dal tempo trascorso dall'ultimo duello. Osservò la carneficina attorno a lui con gli occhi strabuzzati nell'oscurità. Quei poveri disgraziati non avevano avuto nessuna possibilità contro di lui, ma non si sentiva in colpa. Anzi, era lieto di aver finalmente spedito all'inferno qualcuno che se lo meritava, invece che in paradiso come martire. La vista della schiena coperta di frustate, rimasta lì sulla scogliera dopo la decapitazione, lo disgustò al punto da fargli fremere le mani. Quello sfoggio di irriverenza di fronte alla sacralità della morte era la dimostrazione ultima che quegli uomini meritavano non solo lo stermino, ma la dannazione eterna, e Isaia avrebbe quasi provato piacere nell'ucciderli se il suo animo fosse stato più suscettibile alle emozioni umane. Invece ciò che provava era rammarico per la morte del barcaiolo e un forte timore per la possibilità che ci fossero altri cacciatori nascosti sull'isola.
Isaia si sporse oltre il promontorio e guardò giù. L'oscurità gli impediva di vedere chiaramente, ma gli sembrò di sentire i tonfi della barca contro il molo in mezzo allo sciabordio delle onde. Probabilmente nessuno era corso lì mentre il combattimento avveniva sulla scogliera, ma controllare di persona era l'unico modo di averne la certezza. Prima, però, era meglio assicurarsi che Timoteo stesse bene. Il persecutore trasse un sospiro profondo e si avviò verso le rovine, agitando la spada all'aria per sgocciolare via il sangue. Avanzò con circospezione, guardandosi intorno con le orecchie tese in cerca di rumori sospetti. Non sembravano esserci altri cacciatori negli immediati paraggi. Il persecutore scese le scalinate che portavano alla grotta e la luce della lanterna che aveva lasciato al bambino si profilò tenue sulle pareti di pietra.
Timoteo sussultò quando vide il compagno sbucare dalla scalinata. La spada era completamente glassata di sangue nerastro e c'erano diversi schizzi anche sulla corazza. Sangue, ancora sangue. Il bambino dovette distogliere lo sguardo e premere le mani sulle tempie per riprendere lucidità. Le gambe gli tremavano e i suoi occhi rispecchiavano gli stessi bagliori di rabbia che avevano arso di fronte alla salma accasciata del padre. Tutta quella violenza gli stava avvelenando i pensieri, e i viscidi tentacoli dello sconforto gli si avvinghiavano alla vita per trascinarlo nell'oblio mentale.
Isaia fece cenno al bambino di seguirlo fuori. Era pallido come un cencio ed evidentemente turbato, perciò stare vicino al focolare e mangiare un boccone lo avrebbe rinvigorito un po'. La pressione psicologica contro cui stava lottando era forte, ma Isaia non poteva fare niente se non continuare a proteggerlo sotto la sua ala sperando che i traumi subiti non lo sopraffacessero. Aveva già sacrificato cinque vite per portare avanti quel viaggio, nonché messo in pericolo la propria, ed era un motivo sufficiente perché il ragazzo continuasse a fidarsi di lui. Timoteo si alzò lentamente e seguì il persecutore strascicando i piedi sui gradini di pietra. I due salirono le scale alla luce della lanterna e quando sbucarono fuori il bambino dovette guardarsi le scarpe per non vedere i cadaveri rimasti al suolo. Isaia si affrettò a trascinarli sull'orlo della scogliera e a gettarli di sotto, avendo inteso che lui ne aveva abbastanza di corpi morti. Ogni volta che si sentiva il tonfo di una carcassa che cadeva in mare, Timoteo strizzava gli occhi e sussultava con voce flebile. Anche coi pugni serrati e le spalle rigide, però, non sembrava capriccioso o frustrato in maniera infantile. No, era genuinamente esausto di avere il capo perennemente posato sulle ginocchia della morte.
Una volta sbarazzatosi dei cadaveri, Isaia accese il focolare usando la fiamma della lanterna e lo attizzò per bene finché non fu abbastanza vivace. Tirò quindi fuori dal fagotto una coperta, pane e formaggio e li porse a Timoteo che si era già accoccolato vicino alle fiamme.
«Grazie» mormorò lui, prendendo le vivande con un po' di esitazione.
Isaia abbassò il capo in segno d'intesa. Ripose la spada poco distante, dove il bambino non poteva vederla, poi afferrò pergamena e carboncino dal fagotto e scarabocchiò un messaggio alla luce del fuoco. Devo controllare la barca. Torno subito. Lo mostrò a Timoteo, ma lui sgranò gli occhi e scosse la testa.
«Non capisco la tua scrittura. E ora sono troppo stanco. Non ricordo tutte le lettere che mi ha insegnato Pia. Mi dispiace» disse, addentando il pane e formaggio con gli occhi lucidi. Isaia sospirò, poi disegnò sulla pergamena i contorni di una barca. Una volta compreso il messaggio, Timoteo sgranò gli occhi.
«Dobbiamo già partire?»
Isaia scosse energicamente la testa.
«Allora che vuoi dire? Che vai a controllare la barca?»
Isaia annuì.
«E mi lasci da solo?»
Il persecutore fece un gesto curvando pollice e indice come per indicare qualcosa di molto piccolo. Lo avrebbe lasciato solo per un paio di minuti al massimo.
«Mh» Timoteo tornò a mangiare la pagnotta con poca convinzione. Il tepore del fuoco lo aveva rinfrancato un po', ma l'angoscia gli permeava ancora i capillari facendogli fremere i muscoli sotto la pelle. Isaia gli carezzò paternamente la spalla per rassicurarlo, poi afferrò la spada e s'incamminò rapidamente verso il sentiero che conduceva al molo.
Mentre scendeva, il persecutore sentiva la mente sgombra da pensieri dopo il combattimento. Era ancora in subbuglio per l'inaspettata morte di Sanudo, ma lottare lo aveva riportato alla fredda lucidità che sentiva familiare. Eppure, nonostante si compiacesse di essere una macchina di morte ambulante, questo distacco emotivo non era intaccato dall'affetto che provava sempre di più per il ragazzo. C'era sempre una punta di solidale commiserazione, un certo obbligo di ripagarlo del danno fatto, ma ormai anche questo si era arreso al bisogno più ampio che Isaia sentiva nelle viscere. Il persecutore sospirò mentre scendeva lungo la scarpata. Anche lui era stanco, proprio come Timoteo. Alzò la lanterna per illuminare il molo e trasalì.
Un ultimo Cacciatore di Reliquie era chino sulle cime della barca, intento a slegare i nodi con mani tremanti. Non appena fu colto dalla luce, questi si voltò verso Isaia e un profondo terrore gl'invase ogni ruga del volto. Il persecutore inarcò le sopracciglia. Credeva che non ce ne fossero altri, ma a quanto pare si era sbagliato. Pregò che questo fosse davvero l'ultimo mentre scaldava i muscoli e stringeva le dita attorno all'elsa. Il cacciatore portò istintivamente le mani di fronte a sé e contorse la faccia in un'espressione pavida e disperata. Isaia posò a terra la lanterna, poi lo esaminò mentre si avvicinava minacciosamente. Era denutrito e lercio come i compagni, forse ancora più sciupato, e dalla sua posa pietosa sembrava di gran lunga più codardo. Solo allora il persecutore si accorse che quello non aveva nessun arma (e questo spiegava perché non avesse tagliato le cime d'ormeggio) e che cercava di articolare delle parole in mezzo ai boccheggi di terrore.
«Fermo» balbettò, il petto che pulsava con più violenza che mai. Isaia lo ignorò e continuò a marciare. Allarmato, quello deglutì per inghiottire la paura che gli ostruiva la gola, poi riuscì a biascicare qualche parola con le labbra tumide.
«Ho visto cinque dei miei compagni precipitare giù. Non ho speranze contro di te. Ti prego, non mangio da dodici giorni e a malapena i miei occhi riescono a vederti»
A quanto pare questo era più loquace degli altri, pensò Isaia. Rallentò l'andatura, sperando che rivelasse più informazioni nel tentativo di suscitare pietà.
«Non... non sono come gli altri. Loro volevano placare la fame col vecchio, sono stato io a spingerlo giù. Non glielo avrei permesso» continuò il cacciatore, che ora si era voltato e implorava in ginocchio il persecutore. Isaia sbuffò dentro l'elmo, irritato dal tono con cui parlava. Se era lui la mano che aveva assassinato l'innocente barcaiolo, tanto meglio. Si meritava l'esecuzione più dei compagni selvaggi e i suoi piagnucolii avrebbero solo accelerato la cosa. Se Isaia fosse stato in grado di parlare, gli avrebbe consigliato di non sprecare fiato e di passare quel poco tempo rimasto a confessare i peccati a Dio.
«Ci hanno lasciati su quest'isola per punizione. I miei compagni hanno assalito una barca di madri guaritrici. Non sono riuscito a fermarli. Non sono degno di vivere» singhiozzò l'uomo, gli occhi gonfi e le dita contratte a ghermire l'aria come per scacciare dei fantasmi invisibili. Ora Isaia si trovava a pochi metri dal cacciatore. Sollevò la lama, pronto a mettere fine a quei lamenti.
«Ti prego!» la sua voce era completamente intrisa di terrore «non ho avuto opportunità in questa vita! Sono un uomo istruito, posso... posso cambiare! Se mi uccidi ora mi aspetta la dannazione eterna! Non posso!»
L'uomo si accasciò a terra, prostrandosi dinanzi al persecutore. Isaia non batté ciglio.
«Una tempesta sta arrivando, è scritto nella mente delle sibille. Una tempesta mai vista prima, che infurierà come il diluvio universale e decimerà questa laguna precipitata nella miseria! Non sopravvivrete! Messaggi di morte giungono da est e le ossa si raggrumeranno negli estuari come embolie. La pioggia sarà tanto violenta da incidere la carne e le onde inghiottiranno i penitenti come le fiamme della Geènna! Non c'è alcuna speranza per voi! Che siate maledetti!»
La spada di Isaia si abbatté sul collo dell'uomo, precisa come un falco che piomba in picchiata sulla preda. La testa finì in acqua e affondò subito, il viso contratto in una smorfia di odio. Una sorta di espressione di capriccio per non aver ricevuto quella misericordia tanto implorata, come un bambino frustrato per non aver vinto agli aliossi.
Qualcosa diceva a Isaia che quello era l'ultimo cacciatore rimasto sull'isola. Si avvicinò alla barca e strinse i nodi che l'uomo aveva a malapena smosso, assicurandosi che fosse ancorata saldamente al molo, poi gettò il corpo nel mare affinché raggiungesse i compagni. Forse li aveva già raggiunti nell'Aldilà e ora attendeva l'arrivo di Caronte, piangendo la propria sorte. Ironico. Aveva appena ucciso il miglior traghettatore di Venezia e ora proprio un barcaiolo lo avrebbe condotto verso la dannazione eterna.
Sgocciolando la spada, Isaia risalì il sentiero e tornò presto da Timoteo, ancora intento a consumare il proprio pasto.
«Ci hai messo molto. C'era qualcuno?» domandò il bambino.
Isaia scosse la testa, poi estrasse un po' di cibo dal fagotto. Gli era venuta molta fame. Si sedette dando le spalle a Timoteo e cautamente si levò la maschera, poi divorò velocemente il suo pasto stando attento che il bambino non scorgesse il suo volto. Una volta finito, quindi, richiuse l'elmo e iniziò a pulire la spada alla luce del falò. Il crepitio delle fiamme gli ricordava il focolare del castello e le notti trascorse a leggere insieme a Rebecca. Il soffice velluto delle poltrone antiquate e l'odore della carne che cuoceva. Loro erano una delle poche famiglie a potersela permettere lì a Venezia, ma più il tempo passava e più il gusto del cibo diventava insipido. Più libri leggeva Isaia, più sentiva che quelle parole tentavano di colmare un vuoto che cresceva sempre di più. Un vuoto che rendeva ognuna di quelle notti un rimpianto imprigionato in una cornice di tempo sfocata. Isaia sospirò mentre lucidava la spada, strofinando energicamente con lo straccio che aveva visto più sangue di interi campi di battaglia. Timoteo si voltò verso di lui, come illuminato dalla completa desolazione racchiusa in quello sbuffo d'aria. Si raggomitolò nella coperta di lana e si girò sul fianco, lo sguardo diretto alle fiamme mentre la sua mente vagava in mille lividi pensieri. Non aveva sonno, dato che aveva già dormito durante la traversata, perciò aveva tutta la notte per meditare. O fantasticare di leggende bibliche come aveva fatto per tutta l'infanzia nel tentativo di passare il tempo.

Venezia PenitenteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora