XXI

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Isaia, Timoteo e Jawed seguirono Oreb lungo i corridoi della chiatta fino ad uscire sul ponte, accompagnati dalle trepidanti grida della folla. Il persecutore sgranò gli occhi. Raramente aveva visto una tale folla radunata in un singolo luogo. I cacciatori erano diverse centinaia, tutti accalcati vicino ai parapetti in attesa di scendere a terra o intenti a percorrere i ponti di corda per legare le cime d'ormeggio. Sarpedonte aveva abbandonato il trono per salire su una portantina barocca e i marinai cantilenavano inni burleschi mentre finivano di ormeggiare l'enorme chiatta. Il baccano era più forte che mai e Timoteo gemette impaurito mentre marciava insieme ai compagni verso le passerelle. Il persecutore alzò lo sguardo. Rocca Scarlatta si stagliava proprio davanti a loro, troneggiante in cima alla scogliera da cui si potevano scorgere le ultime fortificazioni del lido. Era una delle molte fortezze cadute in mano ai Cacciatori di Reliquie negli ultimi anni, inizialmente eretta dalla Guarnigione Pastorale Orientale prima di venire conquistata da diverse fazioni nel corso dei suoi cent'anni di vita. Era stata costruita con acciaio e metalli del vecchio mondo, nonostante la brutta reputazione dei materiali dell'era del peccato, e per questo era stata chiamata "Rocca Argentata", distinta dalle altre fortezze di pietra e legno. Col passare del tempo, però, le lamiere di cui erano composte le mura si erano arrugginite assumendo un colorito rossastro, il che aveva portato la gente a ribattezzarla "Rocca Scarlatta". E l'ossidazione metallica non aveva portato solo un cambio di nome, ma anche uno spregio popolare che l'aveva eretta a dimostrazione simbolica di ciò a cui portava l'affidamento all'era del peccato. Infatti, come le lamiere arrugginite, anche le persone che ci vivevano venivano corrotte e maledette dallo spirito della fortezza. Il rosso della ruggine si era riflesso anche nel rosso del sangue che scorreva costantemente nei suoi corridoi, scaturito da battaglie, tradimenti e intrighi politici. Qualunque fazione fosse riuscita a conquistare la rocca, non era destinata a durare a lungo sotto la sua influenza maligna. Così si diceva nella laguna. Non c'era posto migliore per una festa che il monumento simbolo della corruzione e del peccato, perciò Isaia non era sorpreso che i Discepoli di Viburnia avessero scelto di banchettare lì. Oreb aveva ragione, erano cambiati molto come setta. Forse il fanatismo non era più il loro aspetto più inquietante.
«Coraggio» intimò Oreb, la mano poggiata alla balestra che teneva legata alla cinta «seguite la fila»
Isaia poggiò la mano sulla schiena di Timoteo e lo spronò dolcemente a seguire le istruzioni del fratello. Il bambino alzò lo sguardo e ammiccò, irrigidendo le braccia per mantenersi lucido mentre pensava alla fuga che li avrebbe attesi. Era al contempo emotivamente spossato e teso come un violino. Continuava a guardarsi intorno nervosamente cercando di sostenere la visione dei cacciatori che intorno a loro esultavano selvaggi, ma ogni tanto era costretto a fissarsi le punte delle scarpe. Dopo essere cresciuto nella più totale solitudine, la presenza di così tante persone ostili lo stava distruggendo. Isaia non sapeva come avrebbe resistito all'atmosfera del banchetto. Sperò in cuor suo che le preghiere di Rebecca concedessero loro un altro piccolo miracolo. L'Isola delle Rose era a meno di una lega da lì, ripeté mentalmente. Dovevano solo resistere un altro po'.
I quattro seguirono la folla esuberante attraverso il ponte della nave mentre le lanterne venivano spente e i bagliori di luce delle terrazze di Rocca Scarlatta si facevano più intensi. Sarpedonte grugnì altre frasi celebrative dalla portantina di raso non appena scese dalla passerella e i Discepoli di Viburnia proruppero in esclamazioni sempre più impetuose. Isaia osservò il fratello con la coda dell'occhio. Aveva uno strano sogghigno stampato in faccia, come se godesse nel vedere la folla abbandonare ogni razionalità per seguire impulsi primitivi.
Mentre i quattro uomini percorrevano gli ultimi metri di chiatta prima di arrivare alla passerella, Jawed continuò a voltarsi incuriosito verso la balestra su cui Oreb teneva poggiata la mano. Il cacciatore sembrò accorgersi della curiosità del cartografo, perché stirò ancor di più il ghigno e si girò sul fianco per mostrargliela meglio.
«Vi piace? L'ho costruita io stesso» disse, rigirandosela tra le mani per farla vedere da ogni angolazione. Jawed rabbrividì, ma non tolse gli occhi dall'arma per paura di far innervosire Oreb. Anche Isaia si voltò per osservarla. Se la ricordava bene, la balestra di suo fratello. L'aveva costruita utilizzando il vecchio crocifisso appeso sopra la porta nella casa di papà, budello di maiale e una noce di bronzo per tenere la corda tesa. Isaia lo aveva aiutato a perfezionarla e ad allenarsi finché Oreb non era diventato un ottimo tiratore. La portava sempre con sé e la preferiva di gran lunga alla spada e a qualsiasi altra arma. Il pensiero di abbracciare il Cristo del crocifisso con le dita della mano mentre scoccava dardi letali lo divertiva molto. Jawed annuì corrucciato e continuò a fissare l'arma per qualche secondo prima di distogliere lo sguardo. Fu quindi il primo a posare il piede sulla passerella di legno e i tre compagni lo seguirono scendendo rapidamente sulle assi del pontile. Alla luce delle lanterne, i Discepoli di Viburnia sgomitavano eccitati mentre la processione saliva le scale di pietra verso le porte di Rocca Scarlatta. Oreb smise di trastullarsi con la balestra appesa alla cinta e la sganciò per tenerla saldamente in mano.
«Per ora ti ho lasciato tenere la spada, fratello, ma adesso dovrai consegnarmela» intimò a Isaia, giocherellando col grilletto del crocifisso «la riavrai presto, non temere...»
Il persecutore annuì, poi sfilò la spada dal fodero sotto lo sguardo preoccupato di Timoteo e la passò delicatamente al fratello. Oreb la agguantò e se la mise sotto l'ascella.
«E voi due» disse, puntando la balestra verso Jawed e Timoteo «vi ho osservati per bene e non sembrate nascondere armi. Ma non mi fido affatto di due facce così brutte, perciò farete meglio a giurarmi di essere disarmati. Lo giurate?»
«Non portiamo armi. Lo giuro» rispose tutto d'un fiato il cartografo. Timoteo sgranò gli occhi, terrorizzato dall'arma che gli era stata puntata contro, poi annuì frettolosamente per confermare le parole del compagno.
«Molto bene» Oreb abbassò la balestra «ora datevi una mossa. Non voglio che il cibo si raffreddi»
I quattro uomini accelerarono il passo per stare dietro alla marea di Cacciatori di Reliquie che salivano i gradini di pietra a due a due. La delirante atmosfera da baccanale si faceva sempre più intensa tra i respiri ansimanti e famelici dei devoti che marciavano insieme a loro. E l'euforia cresceva e cresceva, costringendo Isaia a contrarre nervosamente ogni muscolo perché il più sfrenato abbandono della ragione poteva esplodere intorno a lui in qualsiasi momento. Ululati di gioia giunsero da tutte le parti non appena la portantina di Sarpedonte varcò la soglia della fortezza e le lamiere rugginose della cinta di mura iniziarono a riflettere le fiamme di un fuoco sempre più selvaggio. I quattro uomini salirono in fretta i gradini della scalinata di pietra, ormai macchie indistinte nella densità della folla, e presto anche loro passarono sotto l'enorme arco gotico che fungeva da ingresso nella fortezza. Attraversarono un'ampia sala costellata da absidi adornate d'osso e si guardarono intorno. Il soffitto a navate era retto da spesse colonne di marmo grigio, le quali stonavano con il rosso pompeiano delle pareti sbiadite dal tempo. Grossi bracieri ardevano intorno a loro, proiettando lunghe ombre sul pavimento e riempiendo l'atrio di un vapore grigiastro che sembrava assorbire gli echi del banchetto. La visione di quelle sale barocche era vorticosa, quasi nauseante per Isaia, troppo abituato alla sobrietà delle rovine di Venezia. Le rifiniture delle anfore, i capitelli corinzi, le intagliature religiose nelle porte di noce che un tempo dovevano aver ceduto a troppi assalti... ogni dettaglio dei corridoi celebrava l'abbandono della ragione per lo stomaco. Dimentichi di ogni virtù, i Discepoli di Viburnia si sarebbero presto abbandonati alla blasfemia senza alcun controllo, e quel pensiero gli rivoltava le viscere. Ma non poteva permettersi di vacillare. Doveva restare lucido per la fuga.
Le guardie all'ingresso della sala da pranzo, armate di lance, li fecero passare non appena Oreb fece loro un cenno della mano. La sala era già parecchio affollata e diversi tavoli erano stati occupati dai Discepoli più accecati dall'eccitazione. Nonostante i caldi fumi che aleggiavano intorno alle sedie di metallo, Isaia rabbrividì per il freddo. Il suo fisico stava reagendo in modo drastico all'imminente festa, lasciandogli la sensazione di essere quasi febbricitante, e in effetti il tremore interno che sentiva era simile a quello di una qualche congestione. Improvvisamente tutta la serenità che lo aveva avvolto durante l'incontro con Oreb se n'era andata per lasciare spazio a un sottile mal di testa che presto si sarebbe aggravato. Jawed e Timoteo si guardarono intorno mentre i loro passi echeggiavano negli enormi spazi della sala da pranzo. I Cacciatori di Reliquie li stavano fissando con uno sguardo strano, famelico, come se volessero divorare proprio loro durante il banchetto. Il rimbombo costante del chiacchiericcio di centinaia di nemici incombeva sopra le loro teste come una nuvola temporalesca ben più nera di quelle fuori dalla reggia.
«Potete sedervi qui» disse Oreb, riscuotendo i tre uomini dal nervoso incantesimo della sala. Indicò loro un tavolino di legno con quattro sgabelli, unto e polveroso, e Isaia si sedette con circospezione. I Discepoli di Viburnia continuavano a entrare dalle porte, vagabondando in cerca di un posto libero o sedendosi sulle lastre di marmo accanto ai guerrieri con le reliquie maggiori. Erano tutti armati e continuavano a posare occasionalmente lo sguardo sui tre stranieri, innervosendo Isaia sempre di più. Si sentiva troppo vulnerabile senza la sua spada. Tuttavia, non poteva suscitare sospetti finché non si fosse presentata l'occasione di architettare per bene la fuga con Oreb. Per il momento bastava restare in disparte e non dare troppo nell'occhio sperando che i cacciatori si ubriacassero al punto da dimenticarsi di loro.
«Questa la lascio nell'armeria, dove nessuno può prenderla» disse Oreb, indicando la spada. Isaia annuì e sistemò la sedia in modo da restare seminascosto da una colonna. Il cacciatore sfoggiò un amaro sorriso quando vide l'imbarazzo che il fratello non riusciva a nascondere.
«Per ora non dovete preoccuparvi. Mangiate e divertitevi. Siate naturali. Tra un paio di portate potremo incontrarci nella mia torre, fratello. D'accordo?» disse. La sua espressione beffarda sembrava indicare che aveva già compreso le intenzioni di Isaia per quanto riguardava la fuga.
«Ci vediamo dopo, dunque. Arrivo!»
In un battibaleno, Oreb si allontanò dal tavolo per seguire un gruppo di cacciatori che gli avevano fatto cenno con la mano. Isaia lo seguì con lo sguardo finché la sua sagoma non si perse tra la folla che ormai aveva occupato ogni posto a sedere della sala. I Discepoli di Viburnia continuarono a riversarsi dalle porte d'ingresso in una fiumana che non sembrava avere mai fine e Timoteo cominciò inquieto a rigirarsi i pollici nel tentativo di distrarsi. Jawed mormorò qualcosa tra sé e sé, forse per distendere i nervi, ma il persecutore non riuscì a capire nulla con tutto quel chiasso. La sala presto si riempì completamente, anche se molti cacciatori dovettero sedersi per terra, e dopo una manciata di minuti di baccano e aria stagnante Sarpedonte si alzò.
«O'shagraa» annunciò. La folla si quietò pian piano fino ad ammutolire.
«O'shagraa, discepoli! Oggi noi dimentichiamo ogni rancore e ogni tedio! Abbandoniamo il sangue per il vino e la morte per la vita! Dopo aver assistito a un miracolo, è tempo per noi di festeggiare e celebrare l'assoluta grandezza della nostra grazia dalle Mille Vertebre, la musa alla quale dedichiamo le nostre vite! Fratelli! Gli altri Osteòfili ci hanno traditi! Quei razziatori dei Filippesi, i Templari Minori, i Calcèdoni e quei folli dei Materniani. Ma soprattutto i Taurarchiaci, veneratori dell'ignobile San Luca, selvaggi senza giudizio che hanno causato molte perdite tra i nostro uomini in tempi recenti. I nostri fratelli ci hanno voltato le spalle, accecati dai loro idoli, eppure oggi noi soli abbiamo dimostrato l'assoluta potenza della nostra Santissima Viburnia!»
Sarpedonte alzò il braccio e la folla esultò così forte che le fiamme dei bracieri sembrarono piegarsi all'indietro. Il sacerdote sorrise e inspirò profondamente prima di continuare il discorso.
«Ma oggi siamo qui per dimenticare tutto questo e lasciare che la sacralità dei corpi sia esaltata con cibo e vino! Al diavolo ogni malpensiero! Che la Santa benedica le nostri carni e il banchetto che ci accingiamo a consumare. Ogni boccale sarà levato in suo onore, ogni sacrificio compiuto a suo nome, per la sua immensa gloria! Consumate e divertitevi, fratelli, perché ogni desiderio del corpo sarà appagato in questa notte di festa e miracoli! O'shagraa!»
«O'shagraa!» ripeté la folla in coro.
«O'shagraa!»
«O'shagraa!»
«Liberate il maiale del nuovo giorno!»
Pronunciata quest'ultima frase, Sarpedonte puntò il dito verso il fondo della sala e tutti si voltarono a guardare in quella direzione. Isaia non l'aveva notata, ma un'enorme gabbia di metallo era stata collocata davanti alla porta d'ingresso mentre il sacerdote era intento a pronunciare il suo discorso. Timoteo guaì non appena vide che qualcosa di grosso e nerastro si stava dibattendo al suo interno e restò pietrificato sulla sedia.
I due cacciatori accanto alla gabbia tagliarono le corde e subito un gigantesco cinghiale saettò fuori dall'ombra, latrando e dibattendosi. Corse forsennatamente per il centro della sala, caricando i cacciatori con le zanne ed emettendo versi grotteschi mentre i Discepoli esultavano selvaggi e cercavano di fermarlo afferrandolo per le zampe. Il cinghiale attraversò la folla con morsi e spallate, gli occhi assetati di sangue e le zanne sguainate, e si divincolò dalla presa dei cacciatori mordendo e scalciando con forza sovrumana. Timoteo boccheggiò non appena la bestia gli passò a pochi metri di distanza. Si stava trascinando dietro un Discepolo che lo aveva preso per la criniera, incitato dalle grida della folla, e Isaia si alzò in piedi allarmato. Cercò il viso di suo fratello tra la folla, pronto a rimproverarlo con lo sguardo di non averli avvertiti, ma non riuscì a scorgerlo con tutto quel trambusto. Il cinghiale disegnò un lungo arco con gli zoccoli, strillando con sempre più disperazione, finché un gruppo di cacciatori si lanciò sopra di lui in massa ancorandolo a terra. La folla proruppe in un ululato euforico mentre sedie e calici venivano spaccate sul cranio del cinghiale. Isaia osservò la scena inorridito. In sette avevano bloccato la bestia e ci si stavano accanendo con qualunque oggetto capitasse loro sottomano. Il pelo setoloso si sporcò di sangue nerastro e il cinghiale lanciò altri agghiaccianti strilli di dolore finché uno di loro gli diede il colpo di grazia saltandogli sulle tempie con tutta la furia possibile.
Allora la folla esplose nelle più intense grida di giubilo che Isaia avesse mai sentito e il vincitore sollevò il pugno alzato. Aveva un'espressione trionfante dipinta sul volto e il piede insanguinato posato sul cranio della bestia abbattuta a mani nude. Isaia dovette distogliere lo sguardo. Se solo mettere piede nella sala gli aveva dato la nausea, quella scena aveva certamente moltiplicato ogni malessere per mille. Si voltò dall'altra parte e vide che Timoteo aveva fatto lo stesso. Il suo petto stava pulsando e i suoi occhi erano annebbiati. Morte, morte, sempre morte. Era il trionfo della morte. Isaia fissò la sua espressione inacidita. Pensò che probabilmente stava ricordando le carcasse sulla scogliera dell'Isola di San Sebastiano. Aveva i pugni stretti e le labbra rinsecchite come datteri. La folla continuò ad esultare sgolandosi e l'umidità della sala crebbe sotto il calore di centinaia di corpi euforici. Sarpedonte impiegò parecchio tempo per far tacere tutti i cacciatori, che non la smettevano di acclamare il vincitore dagli occhi luccicanti per l'estasi.
«Fratelli!» declamò «Che il vincitore sia incoronato Re del Banchetto! O'shagraa!»
Due Discepoli entrarono dalla porta e si fecero largo tra la folla con qualcosa tra le mani. Una volta arrivati di fronte all'individuo che aveva sfracellato il cranio del cinghiale, quindi, egli si chinò e loro gli misero qualcosa sulla testa. Egli si rialzò raggiante e si batté il petto nudo più volte, sorretto dagli amici. Sul capo gli era stata posta una corona di lamiere d'oro e vertebre umane e i cacciatori lo acclamarono per un'ultima volta a gran voce sotto lo sguardo crucciato del persecutore.
«Bene! Che ora cominci la festa! Bevete, mangiate e saziatevi!» annunciò Sarpedonte.

Venezia PenitenteWhere stories live. Discover now