XXIII

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Isaia incrociò le braccia e tese le orecchie per controllare che fosse tutto a posto. Mosse le dita all'interno della corazza e notò che faticava a percepire il freddo dell'acciaio contro la pelle. Le mani gli si erano come intorpidite e anche la mente gli si stava annebbiando parecchio. Fissò la fiamma delle torce che illuminavano il corridoio nel tentativo di riprendere lucidità ma un grande fastidio nella corteccia frontale lo costrinse a distogliere lo sguardo. La vista gli si stava facendo sfocata e Isaia imprecò a gran voce dentro di sé. Era come se il suo stomaco si fosse riempito di ghiaccio. Forse era colpa degli incensi nauseabondi che aveva respirato per tutte quelle ore o forse del vapore soffocante dei cibi. O magari di quelle infinite risate che gli avevano martellato le orecchie fino a esaurire ogni sua forza mentale. Tirò un respiro profondo e sbatté più volte le palpebre. Non poteva cedere. Doveva restare sveglio.
Una volta finito di fare pipì, nel frattempo, Timoteo si tirò su i pantaloni e fece per uscire dal bagno quando restò pietrificato dalla paura. Dietro di lui, una donna nuda e grassottella si stava esaminando un grosso livido facciale allo specchio. Un nodo si strinse nelle viscere del bambino non appena egli si trovò davanti la sconosciuta. La sua pelle era grinzosa e scolorita, di quel marcescente pallore che contraddistingueva tutti coloro che passavano troppo tempo immersi nei fumi velenosi della laguna. Timoteo fissò impietrito i suoi capelli luridi, i seni flosci come vesciche di maiale e il bosco di peli ispidi sull'inguine in cui erano rimasti incastrati avanzi di carne. Boccheggiò esterrefatto, sentendo un inspiegabile panico sorgere dagl'intestini, e una smorfia di orrore gli apparve sul volto sudato. Ogni muscolo si era improvvisamente irrigidito e i suoi occhi sbarrati erano fissi su quel livido nerastro che la donna continuava a massaggiarsi. Ci volle qualche secondo prima che la sconosciuta si accorgesse del bambino che era appena uscito dalla latrina. Le sue pupille esaminarono il riflesso di Timoteo nello specchio e la sua espressione si accigliò. Poi lei si voltò e lo fissò con una faccia piena di sdegno.
«Che hai da fissare, tu?» gli sbraitò contro.
Timoteo non rispose, inebetito. I suoi occhi sgranati non riuscivano a staccarsi da quello spettacolo grottesco e la sua mente si era completamente disidratata di ogni barlume di ragionamento. In quel momento tutto intorno a lui si era dissolto in una spirale allucinata di ombre e fetore. Solo il suo corpo era rimasto: una mummia pallida e fradicia in piedi di fronte alla latrina.
«Sei sordo?» continuò lei. Uno sghembo ghigno si dipinse sulle sue labbra. Timoteo strinse i pugni e irrigidì le spalle. Sentiva la condensa colare sulle sopracciglia e le strilla dei cacciatori innalzarsi sempre più forti dalla sala.
«Vedo che non hai mai visto una donna» la sconosciuta tornò a esaminare il livido per un paio di secondi, divertita dall'espressione ebete del bambino «non fa niente. Sono molto occupata in questo momento, comunque. Ci vediamo, ritardato»
Detto questo, si voltò e se ne andò ondeggiando i fianchi. Rivolse un ultimo sguardo di scherno a Timoteo, poi girò l'angolo e un forte coro di fischi la accolse non appena lei entrò nella sala. Isaia la vide passare davanti a sé lungo il corridoio e subito si riscosse dalla sonnolenza, allarmato. Perché mai si sentiva così stanco? Le orecchie gli fischiavano. Era una donna nuda quella che gli era appena passata di fronte? Era lei che aveva parlato nel bagno? Le parole gli erano giunte tutte sfocate, indistinte in mezzo al fracasso di tutti i pensieri che lo tormentavano.
Isaia corse ansimando verso i bagni e lì vide Timoteo. Aveva ancora gli occhi sgranati e il volto atrofizzato, immobile a poche spanne dal lavandino. Mosse un poco la testa quando vide il persecutore, piantandogli in faccia uno sguardo immensamente sconvolto e indifeso. Isaia non riusciva a pensare lucidamente, eppure si sentì terribilmente in colpa. Qualcosa gli diceva che l'immagine della donna gli era rimasta scolpita nelle iridi prosciugandolo della poca sanità di spirito che lo aveva mantenuto sveglio durante il banchetto. Gli si poteva quasi intravedere lo scheletro sotto i muscoli contratti.
Allargò le braccia, Isaia, e Timoteo vi si fiondò con tutte le sue forze. Le sue guance strusciarono contro il freddo pettorale d'acciaio e le sue unghie mangiucchiate ghermirono le scapole della corazza come artigli di corvo. Finalmente il bambino riuscì a serrare le palpebre e gli occhi gli si inumidirono. Ma non voleva piangere, era solo stanco e furibondo. Isaia lo capì dalla disperazione con cui si era abbandonato all'abbraccio. Il persecutore chinò le gambe per ricambiare l'affetto e gli avvolse le braccia intorno alla schiena, carezzandogli le vertebre inarcate. Ogni rumore sembrò cessare per qualche istante intorno ai due compagni avvinghiati. Il tentativo di annaspare in cerca di qualcosa di confortante fermò per un attimo lo spazio e il tempo, chiudendoli in una bolla in cui non potevano entrare né gli odori né l'infinita stanchezza. Timoteo emise un singulto strozzato.
«Basta... basta» mormorò «andiamocene, ti scongiuro. Non m'importa di niente»
Isaia lo strinse a sé con dolcezza. Non sapeva che fare. Finora ogni cosa che aveva fatto per il bambino era andata a finire male. Quello era l'unico pensiero che riusciva a mettere a fuoco, emerso quasi involontariamente in quel groviglio di sensazioni amorfe. Non gli restava nulla da potergli dare se non quell'abbraccio separato dal ferro della corazza. Mentre Timoteo singhiozzava, Isaia controllò la sala con la coda dell'occhio. I cacciatori si stavano radunando barcollanti intorno alle donne appena arrivate e l'euforia aveva raggiunto il suo apice. Almeno così sembrava, perché tutto era sfocato. Era come se il suo cervello non riuscisse a decifrare le immagini che vedeva. Un dettaglio che gli era quasi sfuggito, tuttavia, gli fece riprendere un po' di lucidità. L'inconfondibile piuma di un cappello che si stagliava in mezzo alla folla annientata dall'ebbrezza. Oreb? Li stava finalmente cercando? Il bue era dunque giunto inaspettato?
Isaia voleva alzarsi per indagare, ma le sue gambe erano come immobilizzate. E poi non voleva sciogliersi da quell'abbraccio. Qualcosa dentro di lui gli impediva di abbandonare il bambino. Una sensazione germinata da semi che credeva di avere dimenticato per sempre. No. Non si sarebbe staccato finché Timoteo non si fosse sentito consolato. Non voleva rompere quella bolla di conforto così bella e così fragile. Isaia strabuzzò gli occhi più volte mentre il fischio nelle orecchie si faceva più forte e i muscoli più flosci. Con le poche forze che gli rimanevano riuscì a scorgere una sagoma umana che camminava lentamente verso di loro.
«Voglio andare via. Non lasciarmi»
Le parole di Timoteo gli giunsero ovattate, come parole in un sogno, mentre aguzzava la vista per mettere a fuoco il corridoio. Sì, c'era distintamente qualcuno che si stava avvicinando a loro con passo lento e orgoglioso. Sembrava che stesse sorridendo. Oreb? Pareva la sua andatura, così molle e pacata, opposta a quel freddo abbraccio. Ma la faccia di Timoteo doveva essere bollente. Se solo non ci fosse stata l'armatura avrebbe potuto sentire il suo tepore. Poteva togliersela. Se solo le braccia non fossero state così pesanti.

Venezia PenitenteWhere stories live. Discover now