XXXI

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Isaia tentò di origliare cosa stava accadendo nella sala da pranzo, ma le uniche cose che riusciva a sentire erano il risucchio delle labbra sui cucchiai e il clangore delle posate sulla ceramica. I quattro individui mangiavano lentamente, cercando nel cibo il conforto per distrarsi dalla tensione, e Isaia s'immaginò l'Ustà e la moglie che tra una cucchiaiata e l'altra squadravano i due ospiti in cerca di una via di fuga dalla situazione. Ormai era chiaro che la visita di Jawed non era stata una piacevole sorpresa, eppure qualcosa li costringeva a dimostrare una forzata cordialità. Anche da lì, Isaia riusciva a percepire l'imbarazzo che ristagnava nell'aria permeando le pareti di tutta la palafitta.
Sospirando, il persecutore si rigirò nel letto e si fermò a contemplare il soffitto. Avrebbe riposato ancora un po' e poi avrebbe insistito per andarsene il più presto possibile. Non aveva intenzione di restare in quella casa ancora a lungo, né di fare da incomodo nelle faccende personali di Jawed.
Il pranzo finì presto, senza lunghe conversazioni. L'Ustà e sua moglie parlarono sottovoce un paio di volte e Jawed fece qualche commento sul cibo, ma sembrava che nessuno avesse voglia di conoscere gli altri. Non appena sentì i conviviali alzarsi da tavola, Isaia batté nuovamente con forza sulla testiera del letto.
«Sì?» sbuffò l'Ustà. Camminò svogliatamente fino alla camera degli ospiti e si affacciò dallo stipite con espressione stanca. Isaia gli fece segno di levargli il tubicino verde dal polso una volta per tutte ed egli annuì.
«Va bene» sospirò, avvicinandosi al letto. Con delicatezza, prese la canna tra due dita e iniziò a estrarla con gli occhi fissi sul braccio del persecutore. Da quella distanza, Isaia poteva vedere il suo petto pulsante e le rughe afflosciate sul collo. Non si era mai soffermato sull'aspetto del vecchio finora, ma l'apprensione che lo divorava dall'interno era evidentissima da quella distanza. I suoi muscoli si contraevano sotto impercettibili palpitazioni e il suo respiro era ansimante, quasi asmatico. L'Ustà sfilò la canna palustre con le mani che tremavano e un paio di gocce di sangue colarono sul braccio del persecutore solleticandogli i peli. Egli le asciugò con uno straccio.
«Ecco fatto. Spero siate contento» disse, arrotolando con cura la canna palustre «avrete le provviste e la mappa non appena avrò finito con il soffitto. Dopodiché voi e i vostri compagni dovrete andarvene»
Isaia annuì, carezzandosi l'avambraccio che grondava ancora qualche goccia di sangue. Non era ancora abituato al tocco delle proprie mani sudate sulla pelle nuda. Con uno sforzo, spostò le gambe di lato e si alzò faticosamente in piedi. Si sentiva le membra indolenzite ed eccessivamente leggere, del tutto prive della protezione che l'armatura offriva. Anche se spesso si toglieva la corazza prima di coricarsi o per lucidarla, non era abituato a restarne fuori per così tanto tempo. Provò a fare qualche passo in avanti, ma il suo corpo si muoveva in modo brusco e confuso. Isaia impiegò qualche secondo per smettere di barcollare, dopodiché si diresse a passo sicuro verso la porta della camera.
«Non girovagate troppo per casa, ve ne prego» sbottò l'Ustà, ma il persecutore stava già esplorando i corridoi del piano terra. Le pareti della palafitta erano spoglie, senza l'ombra delle icone o dei santini che adornavano le abitazioni di quasi tutti gli abitanti della zona. Anche i mobili erano ben distanti dai pregiati pezzi d'artigianato gotico che venivano dalla città, traboccanti di carte geografiche e manuali rilegati in pelle d'anguilla. Isaia attraversò il corridoio e intravide la cucina, dove la moglie dell'Ustà stava strofinando i piatti di ceramica sul secèr. Come aveva intuito dalla voce, era più giovane del marito di una ventina d'anni e non aveva i lineamenti orientali come lui. La donna lanciò un'occhiata colma di disprezzo a Isaia non appena lo vide, e continuò a strofinare i piatti con teatrale nervosismo. L'acqua grondante dal tetto le aveva inzuppato i capelli scoloriti, facendola somigliare a uno spettro dal viso burbero, e la sua schiena era ingobbita sotto il maglione nonostante la giovane età.
Isaia la osservò per un po', senza pensare a niente, poi tornò sui suoi passi e girovagò per la casa in cerca di Timoteo. Attraversò il soggiorno dalle pareti colme di libri, la dispensa quasi vuota e la latrina, ma non c'era traccia del bambino. La palafitta era più grande di quello che si aspettava. Mentre cercava nell'atrio, tuttavia, notò la pallida sagoma di Jawed che osservava l'orizzonte fuori dalla porta di casa. Sembrava assorto nei suoi pensieri, chino in avanti come un gargoyle sopra il tetto di una cattedrale gotica, e respirava lentamente. Era un buon momento per chiedergli spiegazioni. Isaia tornò in camera a prendere penna e pergamena, poi uscì fuori e poggiò la schiena su una delle colonne del porticato di legno. La pioggia era ancora forte e il vento soffiava gelido, ma Jawed non sembrava curarsene. Era talmente assorto nel fissare le onde pulsanti che non si accorse nemmeno del persecutore. Solo allora Isaia notò quanto il viso del cartografo fosse cambiato dopo la fuga da Rocca Scarlatta. La sua espressione era completamente livida e i suoi occhi erano lucidi di malinconia, tutto l'opposto della faccia piena di superbia a cui Isaia si era abituato. Anche la sua postura era cambiata, diventando più accasciata e nervosa, e i suoi occhi dai bagliori machiavellici erano specchi di una profonda depressione. Isaia lo aveva conosciuto solo per un paio di giorni, ma gli sembrava che fosse un'altra persona. Scarabocchiò un messaggio sulla pergamena e lo porse a Jawed, che sussultò quando si accorse della presenza del persecutore.
«Mi fa piacere che siate già in piedi» biascicò con voce stanca «speravo non foste costretto a restare qui a lungo»
Lesse quindi il messaggio.
Non mi fido del vostro maestro. Ce ne andremo già questo pomeriggio. La barca la prendiamo noi.
«Non vi preoccupate per il mio maestro» rispose Jawed «non può farvi niente. Conosco un'informazione che sua moglie non sa, e tanto basta per tenerlo in pugno. Posso assicurarvi che il siero che vi ha iniettato vi ha davvero salvato la vita e perciò non avete nulla di cui preoccuparvi. Quanto alla barca, non ho le energie né il coraggio per contrastarvi. È vostra»
Isaia alzò il sopracciglio. La sua teoria si era rivelata esatta. Alla fine il cartografo era giunto fin lì per l'opposto di una visita di cortesia. Jawed sembrò leggere nei pensieri del persecutore perché sospirò profondamente e tornò a fissare le onde che s'infrangevano sul portico.
«Se avessi ancora denari, vi pagherei per farlo voi stesso» disse con un tono di voce sconfortato «ma i cacciatori li hanno presi tutti. E poi non credo che accettereste, con il bambino appresso»
Non accetterei. Non sono un mercenario, scrisse Isaia sulla pergamena.
«Come pensavo»
Jawed tirò su col naso e si ghermì le spalle con la mano, senza staccare lo sguardo dal mare. Con quell'espressione sul volto, sembrava incredibilmente fragile. In realtà Isaia non l'aveva mai visto come un individuo forte, ma perlomeno il suo entusiasmo accademico e la sua lingua sagace lo avevano fatto sembrare un personaggio pieno di vita. Ora invece il suo spirito era completamente avvizzito.
«So bene che mi avete sempre considerato uno stolto finora» mormorò «dal primo momento che mi avete visto, ho capito subito che non vi piacevo. E avete sempre avuto ragione. Non sento assolutamente niente. Mi sono preparato per anni a questo momento, sacrificando tutto quello che potevo fare, e adesso non sento niente. Certo, c'è una certa soddisfazione nel vedere il terrore negli occhi del wasakh, così impotente e indifeso, ma più gusto le mie parole più insipida si fa la mia mente»
Jawed strinse con forza i pugni. Il pomo d'adamo gli traballava nella gola e il vento lo costringeva a socchiudere gli occhi.
«Voi non avete idea di quello che ha fatto. E adesso tutto ciò che vedo è un vecchio tremante e sconfitto. I miei piani iniziali erano di ucciderlo. Poi di tormentarlo un po', come sto facendo adesso, e infine ucciderlo. Si può essere più stupidi? Poi ho incontrato voi. Che uccidete per mestiere, sopportate gli sputi della gente e convivete con una verità troppo nera anche solo per immaginarla. Quando avevate la spada puntata alla gola di vostro fratello, ero certo che l'avreste ucciso. La provvidenza divina aveva già deciso che era quello il momento di placare la vostra fame, e io avevo le mani alzate a schermarmi il viso. Voi però lo avete risparmiato. Dopo quello che vi ha fatto, avete lasciato andare vostro fratello. E io non sono riuscivo a non togliermelo dalla testa mentre manovravo la barca, che voi lo avevate risparmiato. Quello che avete fatto contraddiceva tutto ciò che sapevo su me stesso e sulla missione a cui avevo dedicato anni della mia vita. Non aveva senso. Una parte di me voleva abbandonare tutto, consapevole dell'inutilità della mia odissea, ma un'altra parte di me non voleva che fosse tutto stato vano. Avrei dovuto fare dietrofront e portarvi direttamente all'Ospitale viste le vostre ferite, ma il mio smisurato egoismo ha prevalso. Se avevate perdonato Oreb, avreste perdonato anche me, pensavo. Non sono degno del perdono di nessuno. Ho cercato la mia oasi nel deserto per anni e solo ora mi rendo conto che l'acqua non mi disseta e che i frutti sono marci. Solo adesso mi rendo conto di cosa ho sprecato»
Isaia osservò bene il cartografo, stupito dalla sua improvvisa misantropia. La spontaneità con cui quelle parole gli erano uscite dalla bocca era così diversa dal lessico dotto che amava usare nei discorsi. Gli faceva quasi pena, immobile a fissare l'acqua con quell'espressione disarmata.
«Se voi siete destinato all'Inferno, allora a me cosa spetta?» Jawed sospirò profondamente. Isaia si aspettò che gli occhi del cartografo si inumidissero, ma rimasero secchi come pietre sotto il sole. Scrisse in fretta qualcosa sulla pergamena e gliela porse, impaziente per il freddo che gli irrigidiva le gambe.
Avete detto qualcosa al bambino?
«No. Gli ho a malapena rivolto la parola. È rimasto a vegliare su di voi per tutta la sera e poi ha dormito nell'attico al piano di sopra. Non parla molto e non si fida di me, perciò mi ha chiesto solo un paio di cose e io, come da accordi, non gli ho risposto» rispose Jawed «è davvero forte, quel bambino. Alla sua età non sarei riuscito a resistere a un simile viaggio. Non ho mai visto una tale tenacia»
Isaia annuì. Per una volta il cartografo aveva ragione. Fu tentato di chiedergli perché non lo avesse avvertito del pugnale che Timoteo aveva nascosto nei pantaloni, ma non c'era bisogno di rimproverarlo. Il volto di Jawed attualmente non poteva essere più pregno di vergogna.
«Spero davvero che, qualunque sia la vostra meta, la raggiungiate senza altri intralci. Vi ho già ostacolato fin troppo. Se non ce la doveste fare, non potrei più vivere con me stesso. Che voi possiate non incontrare mai più gente come me, e che il bambino possa crescere percorrendo una strada opposta alla mia» il cartografo fece una lunga pausa, alzando lo sguardo per esaminare le nubi temporalesche che coprivano il cielo fino all'orizzonte. Dopodiché, si voltò verso l'uscio della palafitta con la fronte corrugata.
«Ora non so che fare» disse «ma quando ve ne andrete, credo proprio che racconterò tutta la verità a sua moglie. Le dirò tutto quello che mi ha fatto così che sappia chi è davvero l'uomo che ha sposato. Voglio risparmiarle il dolore di continuare a convivere con lui. Poi, forse me ne andrò con la loro barca. Dove non lo so»
Il cartografo tornò a fissare l'acqua e Isaia annuì impercettibilmente con la testa. Era il suo modo di comprendere il cartografo. I due uomini restarono per un po' a fissare la pioggia insieme. Stavano in piedi e in silenzio, come pellegrini in contemplazione dello scroscio delle onde e dei borbotti delle nubi in lontananza. Isaia osservò le casupole che circondavano l'Arca Sinoda e l'acqua paludosa che gorgogliava sotto di loro e inspirò profondamente. Le ore di riposo lo avevano riempito di un flebile senso di speranza nonostante la pioggia torrenziale. Timoteo era sfinito dalla tensione del viaggio e Jawed sopraffatto dalla depressione, eppure Isaia sentiva una strana pace dei sensi. Era da anni che non gli capitava. Lì, immobile a fissare la pioggia abbattersi sulla laguna, egli sentì ogni molecola del corpo assorbire il suo respiro e rasserenarsi senza alcun motivo. Avrebbe potuto pensare ai pericoli che li aspettavano anche nelle ultime ore di viaggio o alle torture a che lo aspettavano una volta tornato, ma invece non pensò a nulla. Restò accanto a Jawed per un altro po', rimirando la quiete che filtrava nella sua mente, prima di scrivere un ultimo messaggio sulla pergamena.
Non raccontate a nessuno di questo viaggio. E non rivolgetemi mai più la parola, scrisse. Il cartografo lesse il messaggio senza mutare espressione e riconsegnò la pergamena al persecutore con le mani che gli fremevano.
«Così sia. Addio per sempre»
Isaia annuì in segno di congedo e fu lieto di tornare dentro casa. Le gambe gli si erano congelate per il freddo. Ignorando l'acqua che gli gocciolava sulle ginocchia, si diresse a passo sicuro verso il soggiorno, dove l'Ustà stava stendendo un altro strato di pece. Il vecchio grugnì d'irritazione quando vide il persecutore fissarlo dallo stipite della porta.
«Ho quasi finito» borbottò «ora vado a prendere queste provviste con cui mi assillate. Sarebbe anche gradito sapere quante ve ne servono. Quanti giorni di viaggio avete in programma?»
Isaia alzò quattro dita e l'Ustà si accigliò ancora di più.
«Quattro giorni di viaggio per tre persone! Mi volete rovinare!» si lagnò ad alta voce, dimenando le mani e schizzando di pece le pareti. Isaia alzò gli occhi al cielo e abbassò una delle dita. A quanto pare il vecchio era ancora convinto che Jawed avrebbe lasciato la palafitta insieme a loro. Nove porzioni di cibo sarebbero bastate per ogni evenienza.
«Tre giorni. Come volete. Vi darò anche qualche benda di riserva per il braccio. Immagino sia lapalissiano che non potrete usarlo per qualche giorno ancora, finché non sarà completamente guarito» continuò l'Ustà «e vi prego di smetterla di fissarmi, mi mettete soggezione»
L'Ustà finì di spennellare il soffitto dopo qualche decina di minuti. Una volta finito, aprì lo sgabuzzino dove aveva lasciato l'armatura di Isaia e lo aiutò a infilarsela. Il persecutore fu lieto di sentire nuovamente l'acciaio a contatto con la pelle e il peso del metallo sulle spalle. Riuscì a infilarsi tutta l'armatura (con l'eccezione del braccio ferito) e i suoi lineamenti si distesero quando poté finalmente muoversi com'era sempre stato abituato. Il familiare clangore dei giunti dell'armatura era musica per le sue orecchie. Una volta indossata l'armatura, l'Ustà lo portò nel suo ufficio per scegliere la mappa che gli occorreva. Le carte del vecchio erano incredibilmente dettagliate, con cornici arabeggianti che circondavano i territori annotati con perizia e rose dei venti dipinte con la grazia di un artista. Isaia scelse una mappa che illustrava bene i territori meridionali, in cui erano ben visibili sia l'Arca Sinoda che l'Isola delle Rose, e ringraziò il vecchio con un breve inchino mentre la arrotolava. L'Ustà digrignò i denti alla vista di uno dei suoi migliori lavori che se ne andava in mano a un persecutore.
«Grazie a Dio ne ho più di una copia» sbottò «anche se ero particolarmente fiero del tratto di quel pezzo»
I due uomini si diressero quindi alla dispensa, dove l'Ustà riempì un sacco di provviste. Ci infilò parecchie porzioni di gallette, pesce essiccato, carrube, patate e un paio di uova avvolte in un panno di lino. Poi mise nel sacco anche i pezzi d'armatura che Isaia non aveva indossato, la sua spada custodita nel fodero, penna e pergamena per comunicare con le suore dell'Ospitale e infine la mappa che Isaia aveva scelto.
«Avete quello che avete richiesto. Spero siate soddisfatto. Ora sparite» disse a denti stretti.
Isaia si caricò il sacco in spalla e rivolse un ultimo sguardo diffidente all'Ustà prima di fare dietrofront per cercare il compagno. Salì le scale che conducevano all'attico, dove Jawed aveva detto che il bambino aveva dormito, e Timoteo sussultò quando udì il persecutore aprire la botola.
«Non ho voglia di parlare adesso» mormorò.
Isaia fece capolino dalla botola e vide che il bambino era sdraiato su un lettuccio di paglia e stava disegnando qualcosa su una pergamena sgualcita. Alzò il sacco con le provviste e fece cenno di scendere dal letto. Timoteo si morse le labbra.
«Partiamo? Di già?» domandò con voce sottile.
Isaia annuì energicamente.
«Non restiamo qui per la notte?»
Isaia scosse la testa.
«Va bene. Arrivo»
Timoteo lasciò la pergamena sul letto, senza permettere al compagno di vedere cos'avesse disegnato, e scese dall'attico strascicando i piedi. Isaia gli esaminò le brache per controllare se avesse ancora il pugnale con sé. La sagoma della lama era inconfondibile sotto il tessuto sporco, ma il persecutore non voleva irritare il bambino più del necessario. Gliel'avrebbe confiscata una volta a bordo della barca, quando sarebbero tornati soli in mezzo all'acqua.
Mentre attraversava il corridoio che conduceva all'atrio, Isaia incrociò lo sguardo con Jawed. Il cartografo era tornato dentro da pochi minuti e ora si stava riscaldando vicino al focolare. I due uomini si scambiarono uno sguardo carico di mille significati, finalmente consci della natura dell'altro, e si congedarono silenziosamente con un sospiro di rispettosa commiserazione. Timoteo si fermò a osservare il cartografo, colpito dalla sua espressione rammaricata.
«Vieni con noi?» domandò.
Jawed scosse lentamente la testa.
«Oh» il bambino corrugò la fronte, non aspettandosi quella risposta «resti qui?»
Il cartografo annuì.
«E ti vedremo più?»
Jawed scosse la testa. Timoteo alzò la testa verso Isaia, smarrito di fronte ai repentini cambi d'umore del cartografo, e il persecutore fece un lieve cenno col capo per confermare il gesto di Jawed. Perché mai la sua faccia era così funebre? Sapendo che non avrebbe ricevuto risposta, Timoteo scrollò le spalle e trasse un lungo sospiro rassegnato.
«Addio, allora. Buona fortuna» mormorò con poca convinzione. Jawed accennò un sorriso riconoscente e levò il braccio per salutare i due compagni, dopodiché si alzò in piedi e se ne andò dalla stanza. Isaia e Timoteo, quindi, tornarono a dirigersi verso l'atrio. Il vento scompigliò i capelli del bambino non appena uscirono sul portico, e il persecutore gli tirò su il bavaro dell'impermeabile per coprirgli ancora una volta naso e bocca. Mentre saliva a bordo della barca, Timoteo non poté fare a meno di guardare attraverso le finestre nella speranza di rivedere il volto di Jawed, ma non vide nessuno. Non si era mai affezionato al cartografo per davvero, vista la saccenza che aveva sempre dimostrato, eppure non riusciva a togliersi dalla mente il suo ultimo sguardo. Per la prima volta, gli aveva fatto una grande pena. Gli era sembrato un animale ferito, un naufrago travolto da una tempesta che ora fissava il proprio riflesso nella più completa solitudine. E per qualche ragione gli dispiaceva lasciarlo da solo. Timoteo si chiese se anche lui aveva avuto in volto la stessa espressione a palazzo Timordomini, mentre sveniva per la ferita autoinflitta. Forse anche Isaia aveva provato la stessa sensazione nel vederlo, poco prima di portarlo nella sua reggia. 

Venezia PenitenteDonde viven las historias. Descúbrelo ahora