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«A cosa servono i sogni?» chiese Timoteo, dondolandosi sulla seggiola di fianco al letto.
Isaia scrollò le spalle. Non ne aveva idea, ma gli tornò alla mente l'incubo che aveva vissuto prima di arrivare alla palafitta. Ricordava vividamente le rovine della cattedrale e il viso addolorato di Rebecca, ed era certo che quel sogno avesse un significato nascosto. Tuttavia, non riusciva a pensare a cosa. In città aveva sentito parlare di bizzarre visioni che capitavano ad alcuni individui durante esperienze di premorte, quando la barriera che li separava dall'Aldilà era più sottile che mai. Forse quel sogno era una visione simile. E se fosse stato così, quella distesa di sabbia che aveva attraversato non era altro che uno scorcio dell'Inferno. Isaia rabbrividì a una simile ipotesi e Timoteo sussultò quando vide il persecutore incupirsi improvvisamente.
«Non volevo rattristarti, mi dispiace» disse, poi si guardò le punte dei piedi «è solo che continuo a sognare la mia vecchia stanza. Forse questo significa che Dio vuole che ci torni. Come il sogno di Giacobbe e i sogni del Faraone d'Egitto. Io credo che vogliano dire qualcosa»
Isaia scosse la testa e raddrizzò la schiena per assumere una postura più comoda.
"Non sogni il volto di tua madre perché non l'hai mai visto", gli comunicò con uno sguardo "altrimenti sogneresti solo quello". Timoteo sembrò capire, ma continuò a fissare le assi del pavimento. Chissà se lì sotto c'erano degli scarafaggi simili a quelli della sua cella.
«Non lo so, non ci capisco niente» continuò «quando ero lì tutto aveva un senso, ora nulla lo ha. Prima sapevo se stavo dormendo o no, ora non so neanche quello»
Seguì un lungo silenzio, poi il bambino respirò profondamente.
«Scusami. Mi sto lamentando per niente. È che sento una strana rabbia dentro di me e non capisco verso cosa è rivolta. Non se ne va via da quando siamo usciti dalla Rocca. Non so se mi capisci, è una sensazione indescrivibile. È come se avessi paura che domani il sole potrebbe non sorgere più nonostante lo abbia sempre fatto finora »
Isaia sapeva benissimo a cosa si rivolgeva il bambino e gli rivolse un altro sguardo di conforto. Compativa la sua confusione e non riusciva a immaginare i traumi che il viaggio gli aveva inferto. Ogni ora trascorsa in sua compagnia era un'altra crepa nelle sue certezze che gli stava sgretolando le ultime colonne del pensiero. Tra l'altro, Isaia era sorpreso dalla sua loquacità. Dopo che Timoteo lo aveva visto in faccia, era certo che non gli avrebbe rivolto la parola per diverse ore, ma egli sembrava averla già dimenticata. Evidentemente aveva un immenso bisogno di sfogarsi.
«È che le persone sono così complicate. Per me sono sempre stati dei nomi e basta, come degli spettri, ma il mondo è troppo complicato. Non ci sono abituato. Le persone che sembrano malvagie si rivelano essere buone e le persone che sembrano buone si rivelano essere malvagie. Non riesco a leggere gli occhi di tutti come leggo i tuoi, o come leggevo la Bibbia insieme a Pia. Le pagine restavano sempre le stesse nella Bibbia, non come adesso. È tutto sbagliato, sento che il mondo di fuori non è il posto per me. Non è il posto giusto per me. Non ho capito cosa pensava Oreb, o cosa pensa Jawed, che si comporta in modo strano da quando siamo arrivati qui... non ci capisco niente delle persone. Cosa succederà quando mi troverò davanti a mia madre? Io ci penso a fondo, ma più ci penso e più le cose mi sfuggono» Timoteo sbuffò profondamente. Si era messo a giocherellare con le brache sporche di fango per distrarsi, ma le dita gli tremavano leggermente. Alzò gli occhi aspettandosi una reazione del persecutore e sospirò quando il compagno non disse niente.
«Non importa» disse infine «ti lascio riposare»
Isaia chinò il capo in segno di gratitudine e si sgranchì le gambe prima di distenderle sul pagliericcio. In realtà non aveva molto bisogno di riposare. Le uniche cose che lo tormentavano adesso erano un paio di fitte di dolore al braccio e il turbamento che echeggiava nella voce di Timoteo. Ciò che lo affliggeva di più, tuttavia, era la curiosità di sapere cosa si fossero detti finora Jawed e il suo maestro. Lo sguardo angosciato dell'Ustà Biyar gli era rimasto impresso nella memoria, così come il sospiro che si era lasciato sfuggire prima di nominare il "suo apprendista". Se si era ritirato in un luogo isolato della laguna, pensò Isaia, di certo non era per rivedere i suoi vecchi studenti. Il persecutore lanciò un rapido sguardo alla scatolina d'argento che stava ancora riversando qualche intruglio nelle sue vene. Non era il momento di abbassare la guardia.
Nelle ore seguenti, Isaia restò sdraiato sul letto e origliò ciò che stava accadendo nell'altra stanza. La tempesta era ancora forte e il silenzio era riempito dai gorgoglii dell'acqua che s'infiltrava nelle assi del soffitto e colava nelle pareti. I Veneziani erano sempre stati ottimi costruttori di sistemi di drenaggio, ma le palafitte dell'Arca Sinoda erano state edificate da eremiti e mendicanti senza grandi capacità. Isaia udì Jawed e l'Ustà Biyar spalmare la pece sul soffitto per fermare i gocciolii e i passi di un altro individuo, probabilmente la moglie, che preparava qualcosa su un tagliere.
«La città dev'essere sommersa a quest'ora. Spero che Martina e Arianna stiano bene» disse la donna, che dalla voce sembrava molto più giovane del marito.
«Staranno bene» le rispose l'Ustà con voce stanca.
«L'ultima tempesta del genere è stata due anni fa, ti ricordi? E Clodia si è presa il Morbo di San Raniero, le è venuto un mal di testa così forte che non riusciva nemmeno a parlare. Povera donna, non se lo meritava»
«Non era il Morbo di San Raniero, te l'ho già detto, era Leptospirosi» ribatté il vecchio. Isaia sentì la scaletta di metallo cigolare sotto il suo peso.
«Saranno la stessa cosa. Quando arriva l'acqua alta bisogna rifugiarsi ai piani di sopra, lo sanno anche i bambini. Di questi giorni è troppo tossica per immergerci anche solo le gambe, e lei voleva per forza salvare i libri del marito morto. Quanta avarizia! Il suo pane era sempre raffermo. Forse se la meritava una fine così» la donna sembrò inacidirsi mentre continuava a eviscerare il pesce sul tagliere.
«Non era leptospirosi» intervenne Jawed dopo qualche momento di silenzio «la leptospirosi non si può contrarre in acque salate. Inoltre, la laguna è troppo tossica per far prosperare i topi. Dev'essere stato uno dei molti morbi chimici senza nome che infettano queste acque»
Isaia corrugò la fronte quando udì la voce del cartografo. Sembrava diversa, come se avesse perso ogni sfumatura di timore e affabilità. Era al contempo indolente e fredda, con giusto una punta di arroganza. L'esatto opposto del tono che il persecutore si sarebbe aspettato dopo tutta quell'insistenza per vedere il proprio maestro.
«No. Era leptospirosi» ribatté l'Ustà, cercando di mascherare la propria irritazione.
«Davvero?» Isaia s'immaginò Jawed accigliarsi «come l'ulcera rettale di Eloljum?»
La spatola smise di raschiare la pece sul soffitto e la moglie dell'Ustà posò nervosamente il coltello sul tavolo. Il persecutore tese le orecchie. Anche dalla sua camera si riusciva a percepire la tensione che aleggiava nella cucina dopo l'intervento del cartografo.
«Di che parli, tosàt?» gli domandò la donna con voce acida.
«Di vecchie stupidaggini» rispose frettolosamente l'Ustà «una vecchia diagnosi per uno studente. Sarà stata quindici anni fa. Non ricordo molto, sono sempre stato troppo impegnato per curarmi di certe cose»
«Sedici anni e tre mesi» lo interruppe Jawed. Isaia non poteva vedere nulla, ma fu certo che l'Ustà fosse appena sbiancato. Le movenze con cui applicava la pece si stavano facendo sempre più nervose.
«Già, in ogni caso non ricordo molto» continuò il vecchio.
«Non avevate un medico dell'accademia lì a Ebla?» chiese la moglie.
«Certo, ma non era il migliore. Era più un erborista che un patologo, certamente illustre ma inesperto in molti campi in cui io avevo il privilegio di sostituirlo»
«Oh sì, devi avermene parlato. Lo chiamavate Thueban, vero?»
«Precisamente, poiché una delle punizioni riservate agli studenti che commettevano infrazioni era catturare dei serpenti velenosi per i suoi antidoti. Se i serpenti vivono col veleno nel loro corpo, pensava, allora il loro sangue dev'essere il segreto dell'immunità»
«Anch'io ho avuto il piacere di provare tale penitenza» intervenne Jawed, sorridendo amaramente «e non solo: avrete sicuramente sentito parlare degli Zoroadi. Erano un gruppo segreto di studenti che si atteggiavano da smargiassi e comandavano sugli allievi del primo anno. Se si commetteva un torto a uno di loro, l'intero gruppo organizzava la vendetta. Intimidivano tutti, ve li ricordate? Ecco, la prima prova per venire accettati nella combriccola era addentrarsi di nascosto nella serra proibita del professor Thueban e sfiorare con la mano una foglia della sua famigerata pianta Gympie. Apparivano delle bolle sulla mano che impiegavano mesi a sparire e causavano un immenso prurito. Alcuni studenti si erano spellati il palmo ed era la più semplice maniera per riconoscere uno Zoroade»
«Parlate molto bene l'italiano per essere giunto qui da poco. Mi ricordo bene quella storia. Nessuno riusciva a capire perché alcuni studenti si fossero grattati via la pelle dalla mano destra. E il professor Thueban non aveva il coraggio di dire nulla per paura che gli requisissero le piante tossiche della sua serra» rispose l'Ustà.
«È disgustoso. E immorale» intervenne la moglie.
«Dunque vi ricordate molte cose dell'accademia. Non avete perso del tutto la memoria» incalzò Jawed.
L'Ustà non rispose.
«Tuttavia non potete sapere cos'è successo dopo la vostra partenza...» continuò «per esempio ciò che ha fatto Eloljum pochi mesi dopo che ve ne siete andato»
L'Ustà sospirò «No, e preferirei che...»
«Si è suicidato»
Jawed pronunciò quelle parole con un'asciuttezza che disarmò anche Isaia. La cucina calò in un silenzio asfissiante e il rumore della pioggia sembrò svanire per un momento. Timoteo, ancora seduto accanto al letto del compagno, alzò lievemente la testa per fissare la parete da cui filtrava la conversazione. Anche lui era rimasto sorpreso dall'improvviso gelo che aveva invaso l'aria della palafitta. Ormai era evidente: Jawed non aveva percorso tutte quelle miglia per porre gli omaggi al suo maestro, ma per provocarlo. Isaia non riusciva a crederci, eppure le sfumature beffarde nella sua voce erano inconfondibili. Sbalordito, il persecutore avvicinò l'orecchio al muro per ascoltare meglio.
«Ridicolo! Tuffarsi a capofitto negl'Inferi, che scelleratezza!» sbottò la donna «Sarà meglio che vi laviate la bocca prima di toccarla con le mie posate, dopo aver pronunciato quella parola! Ricordate che siete ospite in casa nostra! Il vostro atteggiamento finora non è stato molto cordiale, se posso essere schietta»
«Stavo scherzando!» ribatté subito Jawed. Isaia immaginò un sorriso sghembo aprirsi sulle sue labbra screpolate dalla salsedine.
«In realtà Eloljum ora sta proseguendo gli studi a Tessalonica. È un grande ammiratore di Galeno, perciò si sta specializzando in anatomia, ed è pienamente in salute. Chiedo perdono, era solo un'innocua burla»
«Beh, le vostre burle non sono affatto benvenute qui. Non so come troviate la voglia di scherzare durante una tempesta come questa. Una tempesta mandata dal Signore per punire chi si prende gioco della morte come voi» continuò a rimproverarlo la donna.
«Chiedo umilmente perdono»
«Sarà meglio...»
«Mi dispiace»
La pioggia tornò a precipitare con la stessa forza di prima e l'Ustà Biyar ricominciò a spatolare la pece sulle assi del soffitto. Tuttavia, Isaia sentì che le mani gli tremavano violentemente. Ora ne era certo: Jawed tramava qualcos'altro e aveva tenuto i due compagni all'oscuro di tutto. Anche se in fondo non gl'importava del vero motivo per cui il cartografo li aveva condotti lì, si sentì comunque infastidito dal pensiero che egli avesse mentito per tutto quel tempo. Poco male, pensò, l'importante era che l'Ustà non diventasse aggressivo nei confronti di lui e Timoteo. Ormai era mattina inoltrata e Isaia era pronto a insistere per rimuovere la canna palustre dalla vena, prendere le provviste e riprendere il viaggio senza ulteriori indugi. Rivolse uno sguardo a Timoteo per controllare che stesse bene e solo allora notò qualcosa che sbucava dall'orlo dei suoi pantaloni.
Isaia batté un pugno sul letto per catturare l'attenzione del bambino, poi indicò la sagoma della lama che faceva capolino dalle brache. Timoteo guardò in basso e strinse i denti quando capì a cosa si riferiva il persecutore.
«Questa? Me l'ha data Oreb sulla barca» disse timidamente «per tagliare le cime d'ormeggio in caso non fossi arrivato»
Isaia si accigliò. Davvero Oreb gli aveva dato un pugnale senza alcun tipo di fodero? Era un miracolo che il bambino non si fosse tagliato mentre scendevano dalla barca. Il persecutore raddrizzò la schiena e gli fece cenno di consegnarglielo. Con riluttanza Timoteo se lo sfilò dai pantaloni, dove lo aveva assicurato al tessuto legando il laccio in vita attorno all'elsa, poi esaminò un'altra volta le intagliature del manico.
«In realtà vorrei tenerlo io» disse, senza guardare il compagno negli occhi «solo per sicurezza»
Isaia scosse fermamente la testa e ripeté l'ordine gesticolando con più determinazione. Era fuori discussione.
«Perché no?» la voce di Timoteo si fece improvvisamente più aspra «Jawed ha detto che non puoi più usare la spada con un braccio solo. Devo potermi difendere anch'io»
"No" insistette il persecutore, fissando il bambino dritto negli occhi. Capiva bene le sue paure, ma non gli avrebbe permesso di girare armato per casa di un estraneo. L'ultima volta che Timoteo aveva usato una lama si era ferito profondamente, e Isaia non voleva che questo ricapitasse in qualche punto sperduto della laguna. Per tutta risposta il bambino si alzò dalla sedia e indietreggiò verso la parete con il pugnale stretto in mano.
«Non m'interessa quello che pensi» ribatté con tono deluso «io ho bisogno di qualcosa per difendermi. Oreb lo ha dato a me; non a te. È mio e ci faccio quello che voglio»
Detto questo, Timoteo corse fuori dalla camera e Isaia lo sentì allontanarsi per i corridoi della palafitta. Il persecutore sospirò e osservò il proprio fiato condensarsi nell'aria fredda. Timoteo si era tenuto dentro la frustrazione del viaggio per troppo tempo. In fondo non poteva biasimarlo per una simile reazione. Dalla cucina giunse il clangore di un coperchio sollevato e il rumore di una bottiglia stappata.
«Tra poco è pronto» la voce della moglie dell'Ustà giunse ovattata alle orecchie di Isaia.
«Mh» mugugnò il marito.
«Preparo anche per l'assassino?»
«Non chiamarlo così. Si è svegliato poco tempo fa. Potrebbe sentirti»
«Potrebbe sentirmi, dici» rispose mestamente lei «ma se è muto, sarà anche sordo. Lo sai, quelli come lui si tolgono la voce così non potranno rispondere dei loro peccati di fronte a Dio. E si tolgono l'udito per non sentire le urla di coloro che massacrano. Ricordi quello che ha fatto a Marietto il sarto? Credo proprio che fosse lui, lo avevano descritto con una maschera e dicevano che non parlava»
«È pur sempre nostro ospite. Io non...» rispose l'Ustà, imbarazzato «no, non preparare per lui. E neanche per me. Devo... sì, devo finire di sistemare il soffitto del soggiorno»
«Mi pare che sia già ben sistemato. Non entra quasi più acqua da lì» rispose la donna.
«Sì, ma devo ricontrollare. Credo che sia saggio stendere un altro strato di pece, per sicurezza»
«Suvvia, pranzate insieme a noi. Ho percorso centinaia di miglia per incontrarvi» s'intromise Jawed. Continuava a parlare pregustando ogni parola che gli usciva dalla bocca, come se avesse passato anni aspettando di pronunciarle in quella casa. L'Ustà Biyar restò in silenzio per diverso tempo.
«Insisto»
«E va bene» si arrese il vecchio, parlando con voce sconfitta «prepara anche per me, Eva. Sono piuttosto affamato in realtà»
«Non si butta via niente» gli fece eco la moglie.
«Va' a chiamare anche il bambino. L'ho sentito andare in giro per casa. Credevo di essere stato chiaro con lui»
«D'accordo» disse la moglie, allontanandosi dalla cucina. Isaia tornò a sdraiarsi supino mentre in cucina l'Ustà Biyar scendeva dalla scaletta per accomodarsi a tavola. Sentì Jawed sussurrare qualcosa all'Ustà nella loro lingua natia e i passi di Eva e Timoteo che tornavano nella sala da pranzo. Dopodiché, seguì un lungo silenzio. 

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