Capitolo 10

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Finalmente avevo ucciso quel verme

Guido per quasi quarantacinque minuti, prima di arrivare nel luogo in cui era deposto il corpo dell'uomo che mi ha rovinato l'esistenza. Scendo dalla mia moto e mi incammino verso una porticina di ferro arrugginito sulla parte posteriore del cimitero. Erano molti anni che non venivo in questo luogo, precisamente dal giorno della sua sepoltura.
Entrai percorrendo i viali e un pungente odore di crisantemi misto al delicato profumo di rose, mi fece pizzicare il naso. Era buio pesto e l'unica illuminazione erano i lumini sparsi per le lapidi che avevano pagato la luce.
Arrivai di fronte a una monumentale lapide di marmo grigio. Mi bloccai alla vista di quel viso illuminato da una flebile lucina rossa. Fissai la foto. Il suo sguardo che mi fissava, quel taglio d'occhi e quel colore, uguale al mio. Odiavo quel segno di riconoscimento che quell'uomo mi aveva lasciato. Mi inginocchiai, cadendo rovinosamente nei ricordi.

Avevo dodici anni, riuscivo a capire molte cose e vedevo mia madre sempre più triste, anche se con me faceva il possibile per sorridere e scherzare. Lei mi ha sempre protetto, non l'ho mai sentita lamentarsi e cercava in tutti i modi di non farmi mai mancare niente, ma quella sera fu diverso. Quella sera da parte di mio padre non furono più solo semplici gridate e insulti per stupidaggini. Mia madre piangeva e lui se la rideva spegnendole i mozziconi di sigaretta sul suo corpo nudo. Ero immobile e spiavo dalla serratura della loro camera da letto, erano convinti che a quell'ora io dormissi. Non sopportavo vedere quel verme trattare in quel modo violento mia madre. Mentre la penetrava di schiena, con violenza, le bruciava la pelle e le ripeteva con voce roca di rabbia e desiderio: "Così ti ricorderai di me, quando vorrai dimenticarmi. Tu sei mia e di nessun altro!". A quelle parole i miei occhi erano ormai straripanti di lacrime e il mio cervello era disconnesso dal mio cuore. Corsi in cucina e recuparai uno dei coltelli che utilizzava mia madre, non era molto lungo ma non mi importava, avrei colpito più volte perché lui doveva allontanarsi da lei. Doveva smetterla di abusare di lei senza offrirle un briciolo d'amore. Aprii la porta facendo quanto meno rumore possibile, dovevo colpirlo alle spalle, così lui non avrebbe avuto modo di reagire. Lei aveva gli occhi chiusi e singhiozzava in silenzio e io colpii mio padre alla schiena. Il verme cadde di lato sul letto. Non riusciva a comprendere cosa fosse successo, vedeva me, immobile fissare quell'uomo nudo con uno sguardo che le metteva paura, in quel momento mi sentivo soddisfatto e finalmente libero. Finalmente avevo ucciso quel verme. Lei tentò di coprirsi con la sua vestaglia e venire di fronte a me a braccia aperte, ma la bloccai e con l'indice le indicai di girarsi. Solo allora, vide il coltello piantato nella schiena e il lenzuolo ormai intriso del sangue di quell'essere, che non era degno di essere chiamato padre.

La suoneria del mio telefono mi fece allontanare dai miei ricordi. Dall'ospedale mi avvisavano che mia madre aveva ripreso coscienza e aveva chiesto di me. Quardai l'ora, ormai le prime luci dell'alba stavano facendo il loro primo capolinea. Dovevo sbrigarmi e sparire da quel posto. Sarei ritornato, ma con un altro intento.

La Verità Che Uccide Where stories live. Discover now