Capitolo 16

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Una scoperta scioccante

Tornato a casa dal ristorante mi rifugio nella mia camera. Mia madre era ancora in ospedale, non sapevo quando fosse uscita. Il silenzio regnava sovrano senza di lei, mi mancava sentire il semplice rumore dei piatti messi in tavola o dell'aspirapolvere, o del semplice suo fischiettare mentre spolverava. Non ero mai stato bravo con l'ordine e si vedeva in questi giorni di sua assenza, sapevo che lei ci sarebbe sempre stata e che avrebbe sempre messo tutto apposto, anche se alle volte mi ricordava che non sarebbe stata eterna e che la vecchiaia presto l'avrebbe raggiunta; io a questo non volevo pensarci. Mia madre mi mancava molto, non potevo pensare di perdere anche lei, che era il mio unico punto fermo. Lei era come l'ago della bussola, sapeva sempre cosa era giusto per me, la direzione che dovevo prendere per non perdere mai la strada, anche se molto spesso non l'ascoltavo e facevo di testa mia, perdendomi. Mi ha sempre incoraggiato ad andare avanti, quando avrei voluto mollare e seguire Elisa, lei mi ha teso la mano e non mi ha mai abbandonato, anche se non avevo voglia di reagire e lottare. È la mia confidente, per me ha accantonato le sue esigenze anche le più banali, come uscire e prendere un caffè con un'amica. Per me non si è rifatta una vita come forse avrebbe dovuto. Un senso di rimorso invade il mio essere e mi sento molto in colpa.
Accendo il computer e faccio partire un po' di musica, mi aveva sempre rilassato e in quel momento ne avevo proprio bisogno. Apro la cartella contenente tutte le foto mie e di Elisa e i miei occhi iniziano a bruciare. Anche se erano passati molti anni, mi mancava come l'aria. Scorro velocemente con il cursore; mi fermo di colpo quando il mio sguardo cade sulla foto del giornale locale che riporta la morte di Elisa. L'articolo si apre con il titolo: "Un gioco da ragazzi finito male, o un suicido già annunciato?".
Ma cosa ne sapevano loro!? Buttavano sentenze e supposizioni senza conoscere la vita di Elisa. Lei che aveva lottato fin da piccola come me. Lei che era cresciuta troppo in fretta, dimenticando troppo presto la spensieratezza dell'infanzia. Solo noi potevamo sapere cosa si prova a non aver mai avuto il supporto di un padre presente. Noi che la vita ci aveva presentato il conto salato già dalla tenera età. Noi con i nostri tormenti, con le nostre invocazioni, senza mai ottenere liberazione. Meritavamo una vita migliore di questa. Tutti i nostri progetti sono stati spezzati da qualcuno che ci ha sempre odiato prima ancora di nascere, perché altrimenti non riesco a spiegarmi tutta questa sofferenza ancora oggi. Cerco di sfregare energicamente gli occhi, quelle maledette lacrime non avrebbero mai dovuto scendere, ho promesso a me stesso che sarei stato forte e che i ricordi sarebbero stati le pagine più importanti della mia vita. Invece ancora oggi facevano male come lame nel mio petto.
Chiudo il portatile con uno scatto d'ira e mi raggomitolo sul letto, cerco di chiudere gli occhi, respirare profondamente e calmare i miei battiti, ma la mia mente sta ancora galoppando proiettando svariate immagini che provocano altro dolore.
Scatto in piedi come se qualcuno avesse allentato la molla che mi teneva fermo in posizione fetale. I miei occhi sono spalancati, intorno a me il buio mi avvolge, il battito del mio cuore martella nel mio petto.
Qualcuno mi sta chiamando, sento l'urgenza, sento la disperazione, percepisco la paura. Scendo le scale velocemente, i lampioni illuminano la strada e infastidiscono il mio bulbo oculare. Porto l'avambraccio all'altezza dei miei occhi cercando di abituarmi alla forte luce.
La voce nei miei timpani diventa più insistente, mi invita a essere veloce, a reagire e a non pensare. Salgo sulla moto e parto a tutto gas; non so precisamente dove sono diretto, sembra quasi che il mio corpo sia guidato da qualcuno o qualcosa.
Guido veloce senza prestare molta attenzione alla strada. Inizia a mancarmi l'aria e ho bisogno di respirare. Mi fermo sulla litoranea, ho le braccia intorpidite dalla forte presa. Osservo l'orologio da polso e noto che sono le tre di notte, intorno a me nessun rumore, tranne quello di qualche pipistrello che vola di qua e di là e lo sciabordio delle onde. Respiro profondamente inalando aria solfurea e riprendo il mio percorso; dopo pochi metri arrivo a destinazione. Lascio la mia moto incustodita e scendo velocemente per il porto, intravedo una piccola imbarcazione, un peschereccio per la precisione, mi guardo intorno sembra non esserci nessuno. Indosso il giubbotto salvagente e avvio il motore. Il nero del mare si mischia con il cielo plumbeo. Sembra che la barca conosca la direzione, perché dopo poco mi trovo ai piedi dell'entrata della Grotta delle Striare. Questo luogo mi sembra più inquietante del solito. Il vento tra gli scogli sibilava suoni che sembravano provenire dall'aldilà. L'odore nauseabondo di zolfo mi fa venire un conato che respingo scuotendo energicamente il capo. Scendo dall'imbarcazione e accendo la torcia del telefono, afferrò anche un piccone che trovo sull'imbarcazione.
Quante volte io ed Elisa ci siamo rifugiati qui, per gioco, per divertimento, insieme non avevamo paura; ora invece qui da solo mi sento morire. La corrente mi accarezza la pelle facendola accapponare, mi volto velocemente, sembrava quasi un tocco di mano, ma non vedo nessuno.
Proseguo, mi addentro, devo arrivare in fondo, fino all'Altare. Cammino piano e ogni tanto scivolo su quella pietra liscia ricoperta di salsedine, fino a sbattere e stendermi su qualcosa di morbido ma allo stesso tempo freddo. Il telefono mi scivola di mano e il piccone si incastra in qualcosa che non riesco a capire cosa possa essere. Un odore acre, di marcio, invade le mie narici. Tento di recuperare il telefono poco distante dal mio braccio, un forte senso di inquietudine pervade il mio corpo e spasmi contraggono i miei muscoli. I miei occhi si paralizzano alla vista di quel corpo sotto il mio. Riconosco subito quei colori, quel completo elegante che lo accompagnava nelle sue giornate lavorative, quei capelli sale e pepe che portava sempre più lunghi in superficie, ondulati alla perfezione, ora erano arruffati e intrisi del suo stesso sangue coagulato. I suoi occhi, di un verde spento mi fissavano terrorizzati, riuscivo a percepire la sua paura. Una delle sue mani era ancora aggrappata alle rocce e l'altra chiusa a pugno, come se contenesse qualcosa al suo interno. Non poteva essere vero, il Dottor Congedo era morto, Antonio era stato ucciso.
In poco tempo, lampi di luce invadono il mio campo visivo, rimbombo di sirene martella i miei timpani, voci sconosciute mi circondano.
La polizia scientifica fa il suo lavoro e carica il corpo per portarlo all'obitorio. Dopo avermi avvolto in una coperta termica e tartassato già delle prime domande, mi accompagnano sulla scogliera, sembra un paese illuminato a festa con tutti quei lampeggianti accesi. Non mi era mai piaciuta nessuna forza dell'ordine, ma adesso mi sono visto costretto a chiedere aiuto.
«Signor Storace come sapeva che il corpo del Dottor Congedo era qui nella Grotta delle Striare?»
Il maresciallo, un uomo di all'incirca cinquant'anni, alto e massiccio, mi osserva con il viso arrossato dal caldo afoso che lo scirocco ha portato. Lo osservo per un tempo imprecisato, sembra quasi che non riesca a trovare la giusta risposta. Avrei potuto rispondere che una voce mi ha guidato fino a qui, o una forza oscura, ma... mi avrebbe creduto? O mi avrebbe chiuso in manicomio? O meglio avrebbe chiamato un esorcista? Qui da noi la pazzia è associata al demonio.
Alla fine decido di rispondere nel modo più breve e coinciso che conosco, mostrando tutto il mio stupore.
«Non lo sapevo, per me è stata una scoperta scioccante!»

La Verità Che Uccide Where stories live. Discover now