Capitolo 13

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Fiori di Bach


«Signor Storace, come si sente?», il dottore, un uomo che aveva superato la cinquantina, sicuramente da poco, con occhiali calati sul naso, e una capigliatura sale e pepe niente male per la sua età, fissava il referto nelle proprie mani, mentre mi rivolgeva la domanda.
«Mi scusi, cosa è successo? Perché sono qui?», ricordavo veramente poco, un dettaglio, quello sì. Un mantello nero allontanarsi da me, nel parcheggio dell'ospedale e ora, sono qui disteso su questa barella, con una flebo piantata nel braccio. Cerco di liberarmi dal tubicino e inizio ad agitarmi, devo andare da mia madre, lei ha bisogno di me.
«Si calmi, la prego. L'abbiamo trovato svenuto, nei parcheggi e, anche, molto disidratato. Ora le stiamo facendo una flebo per reintegrare i sali minerali e le abbiamo fatto alcune analisi, ma lei deve stare calmo».
«Non posso starmene calmo. Mia madre è ricoverata qui e ha bisogno di me, io sto bene non preoccupatevi. Se c'è qualcosa da firmare me la dia perché non rimarrò un minuto di più, disteso su questo lettino».
Il dottore mi guardò per un attimo da sopra i suoi occhiali, come se stesse cercando di captare qualcosa dal mio sguardo o dal mio atteggiamento, o come se si stesse trattenendo dal dire qualcosa. Subito dopo aggiunse, rivolgendosi all'infermiera che si trovava alla mia destra: «Gabriella, stacca la flebo e dai una penna al ragazzo, lo faremo firmare se è ciò che vuole».
«Va bene dottor Romano, per gli esami in corso come facciamo?».
«Fallo compilare con i possibili recapiti, telefono, email, indirizzo, tutto ciò che possa essere utile a rintracciarlo. Buona giornata signor Storace».
Il dottore uscì dalla stanza e io iniziai a firmare diversi fogli, nel frattempo mi veniva erogata l'ultima goccia della flebo. Appena l'infermiera mi staccò tutto, mi alzai e senza nemmeno salutare, mi diressi a passo svelto nel reparto di mia madre.
Tantissimi pensieri vorticavano nella mia mente e mi sentivo terribilmente solo. Il vociferare nei corridoi mi sembrava quasi ovattato. Troppi erano stati gli eventi negativi successi negli anni della mia vita. Essermi liberato di mio padre, del verme che aveva rovinato la mia esistenza e quella di mia madre, mi era costato caro. La morte di Elisa ne era stata la prova e io non riuscivo ancora oggi a darmi pace. Il vuoto che provavo nel mio cuore era un enorme voragine in cui cadevo molto spesso. L'unica ancora di salvezza che mi era rimasta era lei, mia madre, che per colpa mia, ora, si trovava in un letto d'ospedale con una ferita alla nuca. I dottori volevano aiutarmi e lo capivo, ma ero arrivato al punto di non fidarmi nemmeno della mia stessa ombra. Come potevo? Ero io la causa di tutto quel dolore e giorno dopo giorno mi convincevo sempre di più di questo. Ero io la mela marcia in un bel cesto di mele rosse luccicanti. Dovevo salvare mia madre, lei non meritava tutta questa sofferenza. Non potevo lasciarla da sola, lei aveva bisogno di me, come io di lei. Chi era venuto l'altra sera a farle del male, sicuramente sarebbe tornato per concludere l'opera e io non lo avrei permesso.
Delle voci al di là della porta della camera di mia madre mi fecero bloccare con la mano sulla maniglia. Riuscivo a percepire una voce femminile e una maschile, ma il suono risultava molto lontano, sicuramente perché le camere erano insonorizzate. Attesi un po' prima di aprire, per capire chi potesse essere. Poco dopo spalancai la porta con un colpo secco e lo stupore nei loro occhi mi fece congelare il sangue.
Roberto e Giulia erano lì di fronte a me, in piedi, appoggiati alla spalliera del letto e conversavano pacificamente con mia madre. Istintivamente abbassai lo sguardo, non ebbi il coraggio di guardarli negli occhi. Mi diressi vicino al letto senza dire una parola, salutai con un bacio sulla fronte mia madre e scappai via da lì. Sentivo il loro sguardo su di me mentre mi allontanavo e l'incredulità farsi strada sul volto di mia madre.
Loro non sapevano niente? Come avrebbero potuto!. Luigi era morto e io non ero andato nemmeno al suo funerale. Ero scappato come un ladro dal suo appartamento, avvisando Roberto dell'accaduto con una chiamata anonima. Ero bravo a fare questo; ogni volta, di fronte a un ostacolo, invece di superarlo, io scappavo.
Sono un codardo, un vigliacco.
I miei occhi iniziarono a pizzicare e ad appannarsi. Da quanto tempo non piangevo? Mi mancava il mio migliore amico, mi mancava mio fratello. L'oppressione nel mio petto iniziava a crescere sempre di più e il panico si faceva strada nelle mie vene. Stavo per salire sulla mia moto quando mi ricordai di non avere il mio erogatore di tranquillante. Chiamai subito in farmacia per farmelo mettere da parte, avrei impiegato almeno un tre quarti d'ora per arrivare, traffico permettendo a quest'ora del pomeriggio inoltrato. Dall'altro capo del telefono una voce di donna rispondeva alla mia chiamata. Rimasi un attimo spiazzato perché di solito era il dottor Antonio a rispondere.
«Buonasera, farmacia Congedo desidera?»
«Eh, buonasera il dottor Antonio non c'è?»
«No mi dispiace, per il momento ci sono solo io. Sono la dott.ssa Rita, se vuole può dire a me.»
«Ah sì, va bene. Mi servirebbe lo spray ai fiori di Bach. Il dottore sa quale prendo.»
«Ah lei è il signor Riccardo Storace?»
«Sì, sono io.»
«L'aspetto, quando vuole il suo spray è qui.»
Rimasi perplesso a fissare il telefono. Il dottore non si allontanava mai dalla sua farmacia e tanto meno, in quasi dodici anni che vivo a Santa Cesarea non aveva mai lasciato la sua farmacia nelle mani di qualcun altro. Misi il telefono in tasca e feci riscaldare il motore della moto, la voce della dottoressa mi aveva incuriosito e volevo vedere che aspetto avesse, sembrava giovane e nel mio paese apparte qualche turista di ragazze giovani e con una voce affascinante non ne trovi tantissime. Da quando avevo iniziato ad interessarmi nuovamente alle ragazze? Passai la mano sulla guancia destra, tra lo zigomo e l'attaccatura del mio orecchio, per ricordarmi che io non avrei mai più fatto colpo su una ragazza.

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