CAPITOLO 165

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Nessuna stanza mi era mai sembrata così vuota, così fredda.

Perfino la solitudine che avevo provato nelle celle del mio palazzo sembrava più di compagnia, alleviata dalla pesante oppressione dell'ombra di Markus, sempre costante.

Ora, invece, pareva che il velo gelido dell'inverno fosse calato di nuovo.

Silenzioso.
Immobile.
Perenne.

Dei cocci rotti, cristalli di ghiaccio, rimanevano solo dei frammenti troppo piccoli per essere raccolti a mani nude.

Delle pozze di vino, chiazze di neve, restava solo un alone umido e maleodorante.

Dell'assuefazione di Dollarus, calda primavera, non c'era più alcuna traccia.

Ora anche lui, come un bocciolo spuntato in una stagione sbagliata, era ghiacciato.

E provai pietà, per quel fiore folle.

Sbocciato in solitudine e al momento meno opportuno, non aveva possibilità di sopravvivenza.

Eppure resisteva.

Al freddo.
Alla pioggia.

Speranzoso nell'arrivo della primavera.

Fermo, seduto sulla pietra difronte a me, Dollarus aveva la schiena ricurva, china verso il tavolo, come un germoglio incastonato nel legno che non può far altro che fissare le radici del proprio albero.

«Perché?» Mi domandò, la voce bassa, tiepida di emozione.

«Perché?» Ripeté, sollevando lo sguardo.

Sul volto di Dollarus, ancora annichilito dalla fredda stagione, non c'era alcuna espressione.

«Ci ero riuscito...»

Eppure, come piccole perle di brina mattutina che, scivolando lungo i petali chiusi ne accarezzano la superficie riflettendo i raggi dell'alba, anche le iridi eterocrome di Dollarus brillarono più luminose, mentre una lacrima, pesante, rotolava giù per la guancia, rigandogli lo zigomo.

«Ci ero quasi riuscito.»

E subito dopo ne seguì un'altra.
E un'altra ancora.

E fu allora che l'inverno finì.

Fu allora che il ghiaccio e la neve si sciolsero, liberando definitivamente il germoglio.

Quel folle germoglio.

Scattai in piedi, fiore che fa capolino dal terreno ghiacciato.

Le mie gambe si mossero più velocemente della mia volontà, aggirando il tavolo e raggiungendo Dollarus dall'altro lato.

Lo abbracciai, stringendolo a me.

La sua spalla nel mio stomaco.
La sua tempia sul mio sterno.

Mi chinai, avvolgendolo.
Le mie braccia come calda coperta primaverile.

E le mie sopracciglia, così aggrottate in sofferenza, nulla avevano a che fare con il nostalgico ritorno a casa delle rondini, eppure la loro forma così acuta tanto le ricordava.

Mi morsi il labbro, fissando lo sguardo in un punto indefinito sopra di me.

Un tentativo, vano, di ricacciare indietro le lacrime che mi avevano fatto bruciare gli occhi.

«Lo so.» Dissi, e il suo pianto divenne più forte.

Una mano scattò a coprirgli il volto, come a nascondere dal mondo la più grande della sua vergogna.

Premeva le dita sulla fronte, attorno alle tempie.
La sua presa come un rovo di spine.

Un singhiozzo, che non era riuscito a trattenere, lo fece sussultare.

Royal Thief IIIWhere stories live. Discover now