Certe volte bisogna scriversi

8 1 0
                                    

«Una volta scrivevo un sacco. Dico davvero. Ogni giorno e molto spesso di notte, con le cuffiette premute fin dentro i padiglioni auricolari. Come volessi far risuonare il mio corpo di quelle note che potevano appartenermi, per una volta, solo in quei momenti.»

Guardava la bacheca di sughero, immensa, davanti a lei.
Achlys non ci andava spesso in quella zona. La metteva in soggezione quella realtà che si alzava verso il cielo, imponente, facendola sentire una formica consapevole.

Le lande giganti: un luogo strano in quel pugno di terra dove ogni logica si confondeva al caos.

«E le parole. Anche quelle volevo mi risuonassero dentro. E poi volevo che uscissero e colmassero i vuoti del mondo.»

Quella parete, in particolare, le lasciava un solletico fastidioso lungo le dita. Un primitivo istinto che la spingeva a tracciare con le dita il regolare disegno del sughero, come se facendolo prima o poi avrebbe riportato alla luce chissà quali verità nascoste.

«Io mi sentivo uno di quei vuoti. Mi attirava la prospettiva di giocare a fare l'eroe e riempirne qualcuno, come i grandi che ammiravo, gli scrittori, che inconsapevolmente lasciavano cerrotti lungo la mia via, senza conoscere neppure il suono della mia voce.»

Quella mattina buia ancora senza luna, Achlys si era ritrovata a scappare dalle torri di Orione e i suoi piedi avevano deciso di condurla lì, senza prendersi la briga di consultarla.

«Così scrivevo dei mie drammi e del mio modo di sfuggirgli. Scrivevo del mio amore e di come questo mi possedesse. Scrivevo delle mie idee e dei miei sogni. Passavo ore a donare i miei ricordi a personaggi che, infondo, erano proprio me.»

Il suo sguardo si era fugacemente posato su pezzi d'antiquariato giganti, come comò e specchiere, telegrafi e strani tostapane; ma solo giunta alla bacheca si era fermata.

«Gli regalavo la mia storia, la vita che avevo e che avrei voluto. Gli davo una possibilità che sembrava non toccarmi mai. Ed ero brava. Oh, se lo ero. Raggiungevo vette e volavo ancora più in alto con la penna in mano, senza temere le altezze.»

Spoglia, solitaria come un gatto nelle ore calde. Una triste bacheca di legno laccato in bianco, senza nulla addosso a coprirla eccetto le spille. Sola nel pieno di quei cappellini di alluminio colorato che si teneva addosso. Sola nella confusione, come Achlys si era sempre sentita insensatamente. Come una stupida, già.

«Ero certa non sarei mai caduta. Mai. Sarei solo potuta arrivate più in alto e usare davvero le stelle come inchiostro per quegli amori, quei colpi di genio di cui andavo tanto fiera.»

Eccola, ora, lì... Sola e stupida davanti ad un enorme bacheca vuota. A fissare un nulla senza confini e spessori, ad aspettare un segno. Come se tutto dovesse davvero avere sempre senso.

«Se serviva qualcosa di scritto, venivano da me. Tutti. Perché io ero quella brava dalle trovate impensabili e sorprendenti, quella profonda che rendeva sempre tutto più "poetico". Ed è stato così per un po'...»

Ma la vita non risponde direttamente, Achlys dovette ricordare questa verità a sé stessa. Lo fece più volte, il suono della sua voce le riecheggiava nella mente. Ma i suoi piedi proprio non si decidevano a sdradicarsi da quel terreno bianco, i suoi occhi non si spostavano da quel sughero freddo ed immacolato.

«Finché non sono andata a sbattere con la realtà. Una gran signora, la realtà. Mi ha donato l'amore che tanto ardentemente sognavo e sentivo mio ancora prima di conoscerlo. Che sento mio ora. In ogni frammento della mia carne e della mia pelle. Ma, allo stesso tempo, mi ha sfilato via le parole da sotto le dita. Da dentro la gola e addirittura dal fondo del cuore.»

"𝚂𝚎 𝚜𝚘𝚐𝚗𝚊𝚜𝚜𝚒 𝚊𝚍 𝚘𝚌𝚌𝚑𝚒 𝚊𝚙𝚎𝚛𝚝𝚒..."Where stories live. Discover now