Mera utopia

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Era infantile, quella situazione.
Se lo ripeteva da almeno 8 mesi, che doveva metter un punto.

Fine. Ciao. Adiós. Au revoir . Bye bye. Sayonara.

Eppure, per quanto volesse davvero metter la parola fine su quel groviglio di pensieri.
Ogni volta, all'ultimo, si fermava e si dava una seconda possibilità.
Afferrava il filo dell'aquilone un istante prima che si incastrasse nei rami di un albero. Di nuovo.

Aveva perso il conto, in quegli 8 mesi, di quante volte avesse rischiato di precipitare giù dalla scogliera immaginaria si cui giocava a fare la funambola. Non si scorgeva la fine nel baratro del suo terrore.

Achlys si passò una mano fra i corti capelli, spettinandoli più del dovuto. Se li era tagliata dopo aver  risognato lui e l'aliate. Il sogno era cambiato più volte da quella prima volta; nell'ultima lui le aveva annusato i capelli e sorriso.

«Hanno un buon odore, sai, così lunghi. Ti rendono solo più carina.» Aveva detto, sorridendo.

Così li aveva tagliati. 

Stava a gambe incrociate sul materasso, nel suo angolino che per poco sfiorava il tetto a spiovente della sua stanza.
Meglio, il suo covo. La sua tana. La sua barriera contro la realtà, immersa di mondi di cui bramava l'esistenza: libri.
L'illuminazione si limitava a delle lampadine a batteria, le quali pendevano come rampicanti per tutta la camera.
Come una giungla taciturna, vista dall'estero.

Accanto al letto vi era una finestra ottagonale, appannata dall'afa pre-estiva che inzuppava quel periodo dell'anno.

«Perchè...?» Chiese a sé stessa.

Lasciò che il suo fisico non più acerbo ricadesse all'indietro, distendendosi poi di fianco.
Gli occhiali le si schiacciarono sugli zigomi, appannandosi a causa del suo respiro.

«Perchè tu? Perché io?» Chiese ancora, senza risposta.

Con un colpo assestato della spalla rigirò sé stessa a pancia in su.
La larga maglietta del Hard Rock Cafè che usava come pigiama le si raggomitolò sui in voluminose pieghe.

«Perchè... io...» Ancora, insistette.

Poco distante da sé, dal suo telefono scorreva languida una playlist degli Imagine Dragons.
Carica di ritmo dirompeva l'ultimo ritornello di "Machine". Se non fosse stata sommersa da tutti quei pensieri, avrebbe sicuramente canticchiato il testo, in un sussurro smorzato per non disturbare chi dormiva al piano terra.
Ma parlare era come prendere un ago strapieno di anestetico e conficcarselo nelle vene, senza umanità.

«Cosa mi sfugge, cosa non sto campendo. Sono un libro aperto, tu lo sai, capiscilo che non ce la faccio più!» Lagnò.

Rotolò di fianco, finendo a pancia sotto.
Ore i piedi flettevano l'aria, incapaci di restare calmi. Su e giù, giù e su.

«Le opzioni sono due: o sei scemo, o lo fai apposta.»

Sì prese i capelli fra le mani, facendo sprofondare il viso nella stoffa del lenzuolo, gelida causa il vento notturno che come un serpente si era intinta in ogni fessura di quella stanza. Piacevole rispetto alla solita afa.

«So che la mia è una mera utopia... so di star prendendo per vero uno strano e ricorrente sogno...»

Fissò un istante il telefono, uscendo da Spotify sul notes.

Ora le note di "Love" soffiavano timide ma ritmate, come piaceva a lei.

«So anche che tutto questo sa... sbagliato.»

Tremante, scorse lungo i vari appunti. Vide subito quello che cercava.
Ma non ebbe il coraggio di ammetter altro a sé stessa.
La nota riportava la dicitura "𝔖𝔬𝔤𝔫𝔬" e lunghe righe di testo, di dialogo.
L'ultimo aggiornamento risaliva alla sera prima. Risaliva sempre alla sera prima, da otto mesi...

«Eppure, per quanto vorrei dimenticare tutto... improvvisamente sei lì.»

Un pizzicore agli occhi la distrò, facendole retrarre la mano dall'oggetto luminoso.
L'occhio le cadde su di un laccio poggiato nella scrivania.
Aveva sognato una notte di legarglielo lei stessa al polso e la mattina dopo eccolo là, reale.

«... so che un noi è qualcosa che non avverrà mai. Sogno o no. Quindi, poni fine a tutto... tu puoi fermarlo...»

Si portò una mano al cuore, batteva veloce, come un cavallo al trotto. Incauto, le ricordava che quel sentimento era reale...
E la stava distruggendo. Era una spiga che le si stringeva al collo, un nodo scorsoio senza via d'uscita.

«Dimmi quelle due lettere, così il mio mondo troverà pace oltre la tempesta...»

Spense il telefono, gettandosi nuovamente di schiena sul materasso. Rimbalzò un po', senza carattere, con occhi lucidi e vuoti

Un istante di buio.

Per un attimo le parve di vedere due occhi colo ambra, o più un castano mare, sorriderle beffardi.
Ma non c'era niente.

"𝚂𝚎 𝚜𝚘𝚐𝚗𝚊𝚜𝚜𝚒 𝚊𝚍 𝚘𝚌𝚌𝚑𝚒 𝚊𝚙𝚎𝚛𝚝𝚒..."Where stories live. Discover now