Capitolo 1

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Ero solito tornare a casa per l'ora di cena, dovevo occuparmi di Julian e della mamma. Uno, dovevo accertarmi che mangiasse prima di andare a dormire; l'altra, dovevo controllare che fosse ancora viva e che non fosse finita in coma etilico. Quel giorno avevo fatto tardi, Miguel mi aveva offerto una birra e, siccome il marmocchio che avevo a casa si divertiva a sperimentare sapori nuovi e quindi non potevo bere birra in sua presenza, avevo accettato istantaneamente. Per questo mio ritardo mi ritrovai uno sconosciuto seduto sul divano del salotto, proprio accanto a mia madre, addormentata con l'ultima bottiglia di gin ancora in mano, possibile nuovo sapore degustato da mio fratello a mia insaputa, chi lo sa.

Entrai lasciando lo zaino a terra accanto alla porta e mi diressi in salone dove sentivo una voce sconosciuta che rispondeva alla raffica di domande di mio fratello. Era in quella fase della vita, quella in cui tempestava di domande chiunque gli capitasse a tiro. Le maestre avevano ritenuto importante ricordarmi che era segno di intelligenza, io avevo considerato ancora più importante far sapere loro che le domande che mi poneva Julian erano alquanto bizzarre e tutt'altro che "intelligenti", ma chi sono io per giudicare la mente di un bambino in piena fase esplorativa e di crescita? Solo il responsabile del suo futuro, nulla di più.

«Sì, probabilmente anche i pesci formano le famiglie. Mamma pesce, papà pesce e piccolini», sentii dire allo sconosciuto, mentre la domanda successiva già lo investiva in pieno.

«E vivono in condomini anche loro?», Julian era un bambino dalla mente molto fantasiosa, era forse il tratto che più amavo di lui, nonostante quanto detto prima, sul fatto che le domande che poneva non fossero geniali. Questa sua fantasia e creatività erano una nota di allegria nella nostra vita.

Mi affacciai in salone e guardai con aria circospetta mio fratello in ginocchio davanti al tavolino con le mani puntate sul legno rovinato, mia madre collassata sul bracciolo del divano e l'uomo sconosciuto seduto proprio di fronte a Julian.

«Chi sei?», chiesi inarcando un sopracciglio e lanciando un'occhiata al piccoletto che si sedeva lentamente sul pavimento, con aria colpevole perché consapevole che una delle regole che avevo imposto in quella casa era non aprire agli sconosciuti. Il problema? Ancora aveva difficoltà a capire che tutti coloro di cui non conosceva almeno il nome erano "sconosciuti".

«Salve, mi chiamo Javier Moya dell'università Zefiro, sono qui per parlare con Samuel Rivera», si alzò in piedi e mi resi conto di quanto fosse più alto di me e che il fatto che si fosse presentato subito potesse creare confusione in mio fratello sulla questione "sconosciuti", dovevo assolutamente trovare un modo migliore per fargli comprendere il significato.

«Sono io, che vuoi?», superai l'uomo alto e mi avvicinai a Julian per controllare che stesse bene, non mi piaceva che venisse avvicinato dagli sconosciuti, men che meno che quegli sconosciuti si approfittassero della sua ingenuità per entrare in casa.

«Proporti un futuro».

«Odio le persone enigmatiche, parla chiaro. Già non mi piace che tu abbia approfittato della mia assenza per entrare qui».

«Non ho approfittato di nulla», non sembrava arrabbiato, ma non significava niente.

«Ah, no? Quindi farti accogliere da un bambino di cinque anni è normale per te. Meglio che te ne vai».

«Non vuoi nemmeno sentire la mia proposta?», sorrise. Un sorriso sincero che mi destabilizzò perché ne vedevo di rado nella vita. Mi girai verso Julian e lui si mise in piedi per avvicinarsi a me e prendermi la mano. Era piccolo di statura, le sue manine sempre delicate e gli occhi enormi, pieni di una luce che vedevo solo io.

«Samu, lui vuole farti diventare famoso», la sua vocina era caratterizzata da quella nota leggermente acuta da bambino, ma non mi infastidiva, come invece mi succedeva in presenza di altri ragazzini della sua età; con lui era diverso, tutto lo era.

La teoria dei calzini spaiatiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora