Capitolo 20

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La maestra di Julian mi chiamò un giovedì mattina, informandomi che avrebbe parlato volentieri con qualcuno della famiglia, ma che a casa, la topaia, nessuno aveva risposto al telefono. Non mi stupiva il fatto che mia madre non avesse risposto alle chiamate della scuola. Pur avendo cambiato scuola, la residenza di Julian risultava alla vecchia casa ed era normale che gli insegnanti provassero a contattare la famiglia, presto avrebbero compreso che era inutile e che non avrebbero fatto altro che far squillare a vuoto il telefono in una casa lontana.

Acconsentii di incontrare la maestra quello stesso giorno, non appena fossi andato a prendere mio fratello a scuola. Dovevo mostrarmi disponibile perché, più soddisfatte avessi reso le maestre nuove, meno domande riguardo mia madre avrebbero posto.

Quando attaccai il telefono, mi avvicinai a Chris e gli sfiorai con il dorso della mano le nocche. Erano giorni che rinviavo i festeggiamenti con lui per aver vinto la partita. Mi sarebbe piaciuto passare una notte in sua compagnia con ancora l'euforia data dalla vittoria nelle vene, ma mio padre l'aveva prosciugata tutta subito e io non me l'ero sentita di lasciare Juju da qualcun altro mentre io me la spassavo con il mio... ragazzo? Potevo definirlo tale? Avevamo continuato a baciarci dietro gli angoli, nascosti dal mondo e in silenzio, per quanto la passione ce lo permetteva. Ogni tanto capitava che un bacio più profondo richiamasse, o meglio risucchiasse, dal profondo della mia gola dei versi ben poco mascolini. Quando capitava, Chris se ne compiaceva, piegando l'angolo della bocca e guardandomi con soddisfazione.

«Chi era?», mi chiese, rispondendo al mio tocco con un leggero sfregamento del dorso della mano. L'allenamento stava per finire, per fortuna, dopo di che avremmo avuto del tempo per noi. Solo per noi.

«La scuola di Juju».

«È successo qualcosa?», da quando mio padre si era presentato alla partita e aveva portato tormenta nella vita di mio fratello, avevo notato che Chris aveva fatto di tutto per far tornare il sorriso a Julian. Si presentava con il gelato, lo portava al parco-giochi, gli faceva vedere i cartoni, ma qualcosa era cambiato in quel bambino e non sarebbe tornato al suo posto molto presto.

Era tutta colpa di mio padre che si era ripresentato nella nostra vita e, come un uragano, aveva devastato tutto ciò che, con fatica, avevo costruito. Lo detestavo, non tanto per ciò che aveva fatto a me, ma per ciò che mi aveva portato via: la spensieratezza di Juju.

Dal giorno della partita, quindi ormai più di una settimana, Julian aveva smesso di investirmi con la sua raffica di domande, sembrava che la sua curiosità nei confronti del mondo si fosse spenta e così anche il suo sorriso. Avevo provato a far nascere in lui quella scintilla tipica che dava inizio alla parlantina, ma non avevo ottenuto alcun risultato soddisfacente.

Non faceva più nemmeno leggere i suoi libri alle nuvole. Perché sì, qualche anno prima, uscendo in cortile, lo avevo trovato con le braccia sollevate sopra la testa mentre teneva uno dei suoi libri illustrati aperto. «Che combini, pulce?», gli avevo chiesto, lanciando un'occhiata verso il cielo che si stava coprendo. «Cerco di non far diventare tristi le nuvole, perché poi piangono», era stata la sua più che ovvia spiegazione. In parole povere: stava provando a non far piovere. E sarà stato un caso, ma quel giorno le nuvole non si svuotarono e il sole tornò luminoso, tanto da far credere a Juju che il suo metodo per tenere le nuvole felici avesse funzionato e farglielo ripetere un altro paio di volte, finché non si trovò effettivamente sotto la pioggia e io con un libro steso sul termosifone.

«No, la maestra vorrebbe parlarmi».

«Di che?».

«Questo non l'ha detto».

«Sei preoccupato?», fino a quel momento, no, non lo ero stato, ma dopo la sua domanda cominciai a chiedermi se fosse il caso di preoccuparsi.

«Dovrei?».

La teoria dei calzini spaiatiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora