Capitolo 13

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La settimana successiva non vidi Alex in giro, solo agli allenamenti, ma non sembrava lo stesso. Se ne rimaneva in disparte, in silenzio, non un sorriso, solo esercizi e distacco. Non parlava nemmeno con Julian, il quale venne distratto facilmente dai gemelli.

Provai ad avvicinarmi a lui un paio di volte, ma si inventò qualche scusa stupida per allontanarsi. Avrei voluto prenderlo da parte, rimproverarlo perché non mi aveva parlato dei suoi trascorsi con la droga, perché, anche se potrebbe sembrarvi un argomento delicato e personale, io avevo il diritto di saperlo in quanto gli affidavo mio fratello per giorni interi quando lavoravo. Se avessi saputo che era un ex drogato che stava smettendo con quello schifo... non so come avrei reagito, se gli avrei comunque lasciato Julian.

Cerco di convincermi che mi sarei comportato allo stesso identico modo, che non avrei cambiato idea su di lui, che avrei continuato a guardarlo sempre nello stesso modo. Ma ho paura che avrei potuto anche comportarmi come una merda e mi spaventa questa possibilità.

Ma ora che sapevo tutto, che ero stato messo al corrente del suo passato, dovevo decidere come agire, ma lui non mi permetteva di avvicinarmi, di chiedergli spiegazioni o di dirgli che a me non importava, perché era vero, volevo almeno provare a far finta che non mi importasse.

«Samuel», e c'era Chris con cui avevo smesso volontariamente di parlare, senza un motivo, così, perché ogni tanto mi comportavo come un bambino capriccioso. Volevo fargli pesare il fatto di non avermi parlato del Tornado, per avermi tenuto segreto tutto ciò che accadeva tra i vari giocatori delle squadre. Drew aveva provato a farmi capire che Chris aveva preso questa decisione per tenermi al sicuro, ma ero abbastanza grande da poter decidere da solo se volevo esser protetto o meno.

«Che vuoi?», mi voltai fulminando il capitano. Aveva i capelli scompigliati e gli occhi verdi leggermente più spenti. Non sapevo come avesse reagito al gesto di Alex, se si sentiva in colpa o se non gli importava. Probabilmente, come me, aveva provato a parlarci e non aveva trovato altro che un muro impossibile da superare.

«Non capisco perché tu debba avercela con me».

Risi e scossi la testa. Avevo decine di pensieri, tra cui Miguel che non mi rispondeva al telefono. Sapevo che era vivo solo perché Cesar ogni tanto mi aggiornava sulle figuracce che facevano e, in qualche modo, Miguel era sempre coinvolto.

«Se non ci arrivi non è un mio problema».

«Forse non ti sei reso conto che ora ti trovi all'università, non più al liceo. Qui non si fanno i giochetti mentali che credi, qui si parla come degli adulti. Se si hanno dei problemi si espongono e si cerca una soluzione».

Ed ecco che tirava fuori il capitano che era in lui. Non riusciva proprio a mettersi nei panni di un diciottenne, doveva sempre alzarsi sul suo piedistallo e guardarmi dall'alto dei suoi vent'anni.

«Vuoi che ti esponga i miei problemi?».

«Certo».

«Vuoi un elenco puntato? In ordine alfabetico o per gravità? Quanto tempo hai a disposizione e quanto costa la seduta?».

Sbuffò e alzò gli occhi al cielo. Vidi una scintilla nel suo sguardo, forse credeva sul serio che gli avrei fornito quella lista.

«Non hai mai avuto un amico con cui confidarti?».

«Sì e non mi risponde più al telefono perché mi trovo in questa università di merda».

«Evidentemente non era l'amico che credevi che fosse».

Gli avrei spaccato la faccia seduta stante, gli avrei tirato un pugno dritto sul naso solo per vedere il colore del suo sangue macchiarmi la mano. Osava parlare di Miguel senza nemmeno conoscerlo. Non poteva sapere che per Miguel fidarsi delle persone era difficile, troppo difficile dopo esser stato ingannato dallo zio; non poteva sapere che io ero stato il suo primo amico e che da allora aveva ritrovato un po' di fiducia da riporre nell'umanità; non poteva sapere che gli avevo promesso che avrei continuato a farmi vedere in zona, sparendo completamente solo per comodità.

La teoria dei calzini spaiatiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora