Capitolo 34

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Quella sera fu una delle più difficili da passare al college. Avevo perso mia madre; avevo Julian da consolare, che, non appena uscito dall'ospedale, aveva realizzato non avrebbe più rivisto la mamma ed era scoppiato a piangere; ero confuso perché in ospedale avevo avuto Miguel e Drew, ma non Chris; avevo paura del futuro, perché nessuno mi aveva preparato a diventare così tanto adulto all'improvviso. In un certo senso, avere mia madre a pochi chilometri di distanza mi tranquillizzava. Ora ero completamente solo.

Julian si addormentò a fatica, con le guance ancora bagnate, il naso rosso e le nocche bianche per quanto teneva forte le coperte, come se avesse paura di venir trascinato via dalla corrente e le lenzuola fossero la corda che lo legava all'ancora.

Mi chiusi la porta della stanza alle spalle e con la schiena poggiata contro l'anta scivolai fino a sedermi sul pavimento. Mi tenevo la testa fra le mani e gli occhi serrati, come se in quel modo potessi rifugiarmi in un luogo lontano dalla realtà, anche se in quel momento la mia mente era più spaventosa di qualsiasi mondo reale.

Sentii dei passi, poi delle mani sui polsi e, quando quelle mani mi obbligarono a lasciare andare la mia testa, aprii gli occhi, per immergermi nell'inchiostro della vita di Drew. Era lì, davanti al mio sguardo, il suo passato, presente e futuro, un futuro ancora sconosciuto, ancora da scrivere.

«Andiamo», sussurrò e io lo seguii.

Avevo chiesto a tutti di lasciare dello spazio sia a me che a Julian, avevo obbligato Chris a dormire nella sua stanza, nonostante l'insistenza con cui aveva provato a convincermi che mi avrebbe aiutato essere in sua compagnia; avevo allontanato Miguel e il gruppo del quartiere dei fighi.

Avevo creato un fossato intorno a me e, in quel fossato, non ci nuotavano i coccodrilli, bensì il mio volermi mostrare apatico e distaccato.

Drew aveva abbassato il ponte levatoio, forzando gli ingranaggi.

Uscimmo dall'edificio, percorremmo il sentiero del parco e giungemmo all'area adibita per bambini. Che se ne facesse un college di altalene e scivoli, non lo so, ma in quel momento mi sembrò il luogo più adatto per fermarmi e morire un altro po'. Perché era questa la sensazione che avevo da quando avevo lasciato l'ospedale, o addirittura da prima, forse da quando ero entrato nella stanza dove era mia madre, o quando la voce di Miguel mi aveva messo a conoscenza di ciò che era accaduto, comunque, da qual momento, qualsiasi esso fosse, mi sentivo trascinare verso un baratro che per me rappresentava solo la morte.

Il parco-giochi sembrava il posto migliore per lasciare che un'altra piccola parte di me morisse. Il mio umore sembrava talmente fuori luogo da sembrare inspiegabilmente adatto.

Mi avvicinai ad un'altalena, sfiorai la corda con cui era tenuto il seggiolino e chiusi gli occhi, lasciando uscire un sospiro dai mille significati. Nessuno avrebbe potuto interpretare quel leggero soffio d'aria, ma Drew ci provò, sorprendendomi.

«Fa male, ogni secondo di ogni minuto. Fa un male cane e non c'è nulla che possa convincerti del contrario. Non esistono parole che possano riportarla indietro, non esistono pensieri che possano affievolire il dolore e non esistono pensieri che tu possa fare, che possano essere utili ora».

Mi girai a guardarlo, lui aveva perso un fratello e, per quel motivo, forse, lo ritenevo degno di potermi parlare in quella situazione. Come se fosse necessario aver sofferto allo stesso modo per avvicinarsi a me. Lui aveva perso tanto quanto me, forse addirittura di più.

Con un movimento del mento mi indicò l'altalena e io mi sedetti, tenendo entrambe le corde tra le dita. Quelle funi sfilacciate mi solleticavano i palmi, riportavano a galla ricordi di quando ero bambino e facevo a gara con i miei amici a chi arrivava più in alto con i piedi quando il dondolio ci spingeva in avanti. Erano bei ricordi e io li stavo macchiando con il dolore che provavo in quel momento.

La teoria dei calzini spaiatiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora