Capitolo 26

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Ero seduto alla scrivania da ormai più di un'ora, non leggevo, non facevo assolutamente nulla, me ne stavo lì, la testa fra le mani, l'indice sinistro a picchiettare contro la tempia, lo sguardo perso oltre la finestra e una confusione tale da farmi assumere l'aspetto di un disco inceppato sul giradischi.

Non avevo avuto modo di parlare con Chris, mentre Drew mi sfuggiva. Ogni volta che ci incrociavamo in corridoio, lui si infilava rapidamente nella sua stanza senza nemmeno accennare un saluto, durante gli allenamenti non mi guardava e, quando era obbligato a starmi vicino, batteva nervosamente il piede e mostrava la sua solita impazienza.

Avrei voluto prenderlo per le spalle, scuoterlo e urlargli che ero stato io a baciarlo, ma che lui aveva risposto ben volentieri. Avrei voluto chiedergli se avesse un qualche significato per lui o se fosse stato solo uno sbaglio. Volevo chiarire le idee, mi sentivo un verme per quello che avevo fatto alle spalle di Chris, il dolce e fantastico Chris, il capitano che ogni squadra di baseball vorrebbe e il ragazzo delle favole, quello che le bambine chiamano principe azzurro.

Come avevo potuto tradirlo in quel modo? Con qualcuno che addirittura non mi guardava più, che a malapena mi rivolgeva la parola, uno squilibrato che urla contro il cielo scuro, come se potesse venir ascoltato. Assurdo.

Eppure, ero ancora seduto su quella dannatissima sedia, poggiato alla scrivania, con una tazza a forma di drago con al suo interno due foglietti ripiegati con due nomi scritti sopra. Forse era da imbecilli lasciare che il proprio futuro venisse scelto da un biglietto pescato al buio, ma io ero tale, ero un imbecille e non sapevo di chi dover essere innamorato.

Il perfetto e luminoso Chris o lo scorbutico e rabbuiato Drew.

La scelta avrebbe dovuto essere semplice, ovvia, ma non per me, perché in quello sguardo, quello color inchiostro, avevo potuto scorgere qualcosa che mi aveva colpito, qualcosa che, togliendomi il fiato, mi aveva dimostrato di poter respirare anche sott'acqua.

Chiusi gli occhi e portai la mano nella tazza scheggiata, Juju l'aveva fatta cadere una mattina che, scontento del fatto che dovesse andare obbligatoriamente a scuola, aveva lanciato la palla attraverso la stanza. Diamine, mi aveva quasi colpito in testa.

Sfiorai entrambi i biglietti, era impossibile riconoscerli al tatto, nemmeno Sherlock Holmes avrebbe potuto sentire il solco della penna e dedurne il nome scritto. La cosa che mi spaventava era che, se avessi avuto modo di riconoscere il nome impresso sui bigliettini, probabilmente avrei saputo quale prendere. Ma non volevo che la mia mente decidesse per me, perché quella era stordita dalle urla del cuore sottostante.

Quindi... bigliettini.

Inspirai profondamente e ne afferrai uno, come se stessi pescando la sorte della mia vita. Avrei continuato a vivere o sarei stato giustiziato?

Me lo portai a un palmo dal naso e lo aprii lentamente. Lessi il nome e lo lanciai contro la finestra con rabbia. Trattenni l'urlo e lo trasformai in un ringhio. Che idiota a credere che un bigliettino avrebbe potuto cambiare la mia mente contorta.

Uscii dalla stanza con quella stessa rabbia che mi aveva fatto reagire in quel modo alla sorte guidata dalla mia stessa mano e mi piantai davanti la porta della stanza di Drew. Bussai con forza e attesi che mi aprisse. Non risposi quando chiese chi fosse a bussare, sapevo che se mi fossi annunciato non mi avrebbe mai aperto, così cercai di ingannarlo, ma, quando me lo ritrovai di fronte, compresi che già sapeva che ero io in corridoio.

«Non puoi evitarmi per i prossimi anni che condivideremo al college».

«Ne sei sicuro?».

«Ne sono più che certo, altrimenti farei diventare un inferno la tua vita».

La teoria dei calzini spaiatiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora