Capitolo 32

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Ci sono chiamate che non ti aspetti e che mai, mai nella vita, vorresti ricevere. Non parlo di quella del Signore che ti "chiama" a sé, parlo di qualcosa che forse alcuni reputano peggiore e io non avrei creduto che potesse essere davvero così difficile. Ma quella chiamata non la fece Dio, bensì Miguel, che non sentivo ormai da diverso tempo, da quando avevo ripreso con me Julian dopo la fine del campionato autunnale. Seppure aveva tenuto con sé mio fratello, noi non eravamo tornati come prima, non sapevo nemmeno se potevamo ancora considerarci migliori amici. Non mi aspettavo una sua telefonata, ma, quando ho letto il suo nome sullo schermo, ammetto di aver sentito del sollievo. Credevo che un pezzo della mia vecchia vita stesse tornando nel proprio posto nel mio corpo. Ma quando, poi, risposi a quella chiamata mi accorsi dal suo tono che quel pezzetto della vecchia vita era andato via per sempre; perché non puoi mandare a puttane il passato e sperare di risistemarlo grazie a una telefonata.

Risposi e lui disse il mio nome.

«Samuel», suonò quasi estraneo a me che ci ero cresciuto con la sua voce e il mio nome nella sua bocca. Era profondo il tono usato, quasi provenisse da una testa nascosta sotto un cuscino. Era distante sotto ogni punto di vista, sia fisicamente che "spiritualmente". Miguel non era più il mio migliore amico, quello con cui ero cresciuto e a cui avrei affidato non solo la mia vita, ma anche quella di Julian.

«Mi-Miguel», balbettare non era nei miei piani, ma pensateci un istante, io quel ragazzo, il primo che avessi mai amato in senso sentimentale, non lo sentivo da più di un mese. La sua voce aveva ancora la capacità di smuovere in me organi che non sapevo nemmeno di avere nel corpo. La milza? Dove si trova la milza? Beh, ovunque si trovi, lui la muoveva con la voce. Il pancreas? Lo stringeva con le vocali e il fegato con le consonanti. Aveva questo assurdo controllo su di me che non avevo concesso a nessun altro.

«Samu, non so come dirtelo, ma devi ascoltarmi».

«Va bene», sarà assurdo, ma ancora non avevo iniziato a preoccuparmi troppo. Cosa avrebbe mai potuto dirmi che mi avrebbe potuto fare più male della sua distanza? Ero sopravvissuto al suo allontanamento, non c'era nulla che potesse farmi o dirmi che mi potesse far crollare. Non più.

O almeno così credevo.

«Si tratta di una cosa seria e tu mi devi promettere di non perdere la testa».

«Miguel, stai esagerando, credo di poter...».

«No, Samu, non puoi. Non è nulla che tu possa aver programmato e so come reagisci alle notizie. Ho bisogno di sapere che sei in un posto sicuro».

«Sicuro? Sicuro in che senso?», mi guardai intorno, mi trovavo nella mia stanza del campus, non c'era posto più tranquillo dove parlare al telefono, pensavo intendesse quello, che volesse un po' di privacy.

Ancora una volta mi sbagliavo.

«Un posto dove tu possa dare di matto senza ferirti. Non sei per strada, vero?», percepii una nota di panico nella sua voce e mi sentii in colpa, perché, nonostante tutto ciò che gli avevo fatto passare, lui ancora si preoccupava per me, per la mia salute e per ciò che mi sarebbe potuto accadere. Lui era fatto così, amava incondizionatamente e non sapeva porre una vera e propria distanza. Poteva far sembrare di essersene andato, ma se ce ne fosse stato bisogno sarebbe tornato in un battito di ciglia. Sarebbe apparso come Goku con il teletrasporto, anche con le dita medio e indice premuti sulla fronte. Ne sarebbe stato capace.

«No, non sono per strada, tranquillo. Credo tu stia esagerando, comunque».

«Dove ti trovi?».

«Nella mia stanza al campus», usai un tono leggermente seccato perché mi sembrava assurdo quel suo comportamento. Cosa avrebbe mai potuto dirmi di così sconvolgente?

La teoria dei calzini spaiatiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora