Capitolo 10

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Tutti hanno paura di qualcosa. Anche gli adulti, i padri di famiglia e le mamme. La paura non ti chiede quanti anni hai, lei ti avvolge nelle sue spire e ti soffoca. La paura è infame, trasforma la notte nel buio pieno di incubi e la luce nelle fiamme di un incendio.

Tutti hanno paura.

Miguel aveva paura di non riuscire mai a diventare indipendente; Cesar di scoprire che i suoi genitori biologici avevano avuto altri figli e che quelli li avevano tenuti; Carlo aveva paura dei terremoti perché quello che colpì la nostra città quando eravamo stati solo dei bambini gli aveva fatto crollare la casa con al suo interno lui e la sua famiglia, in quell'occasione perse uno dei nonni; Chris credo avesse paura di mostrarsi debole di fronte alla squadra, una paura comune a molti capitani; mia madre aveva paura di innamorarsi di nuovo, perché l'ultima volta l'aveva lasciata in ginocchio sommersa dalle sue stesse lacrime.

Anche io avevo paura, ma la mia era qualcosa di diverso, non tangibile come un terremoto che lo senti sotto i piedi, la mia paura ero io stesso.

Io avevo paura di me e di ciò che sarei potuto diventare se avessi smesso di crearmi mille paranoie. Vivevo nella paura ogni singolo giorno. Quando mi svegliavo controllavo che Julian respirasse ancora nel suo lettino; quando giocavo cercavo di essere il migliore perché temevo di poter esser sostituito facilmente con qualcun altro; quando lavoravo sorridevo perché altrimenti i clienti avrebbero iniziato a farsi idee strane su di me e quando passavo del tempo con Julian la paura prendeva il sopravvento.

Quando ero in compagnia di Julian la paura diventava irrazionale.

E se dovessi traumatizzarlo a vita dicendogli la verità su come viene prodotta la carne?

E se dovessi spingerlo dalla parte sbagliata e per colpa mia dovesse diventare un criminale?

E se quando un incubo lo sveglia non dovessi accorgermene e lui dovesse rimanere solo al buio e con i mostri che lo tormentano?

E se io non dovessi essere abbastanza?

E se... se avessi sbagliato tutto e per lui la scelta migliore fosse stata farlo adottare da una famiglia completa di due o un genitore, di qualcuno più adatto di un diciottenne completamente ignaro di come si cresce un bambino?

Tutti hanno paura, ma nonostante io ve ne abbia elencate tante di paure, mie e di altri, non vi ho detto quella più grande di tutte, quella che si acquatta in un angolino e mi sorprende solo di notte, quando la mente diventa più rumorosa e i polmoni più stretti, con il cuore in gola e lo stomaco girato su se stesso.

E se Julian non ci fosse più?

Quella notte mi svegliai di soprassalto per le urla di mio fratello. Mi alzai di scatto dal letto e corsi da lui, buttandomi sulle ginocchia e prendendogli il viso tra le mani. Si agitava e mi chiamava, rimanendo però ad occhi chiusi. Dormiva ancora e i suoi sogni, come capitava spesso, erano infestati da fantasmi del passato.

«Juju, sono qui, apri gli occhi».

Ripeteva in continuazione il mio nome, disperatamente, e urlava pregandomi di non lasciarlo, di non abbandonarlo. Mi sentii comprimere il cuore, provai a prendere aria e a richiamarlo.

«Ju, svegliati».

Respirava con affanno e scalciava. Faceva spesso sogni di questo genere. Sogni in cui lo portavano via da me, sogni in cui uomini cattivi gli dicevano che doveva avere una mamma e un papà e che io non potevo tenerlo. Erano incubi ricorrenti sia per me che per lui. Una volta, la sua maestra mi ha chiesto se avessi mai parlato a Julian delle case-famiglia o degli orfanotrofi o delle adozioni. No, non gli avevo mai parlato di queste cose, eppure lui era preoccupato e ne aveva parlato con la maestra perché aveva paura di venir lasciato in un orfanotrofio. Non lo avrei mai fatto, mai.

La teoria dei calzini spaiatiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora