Capitolo 25

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Diluviava, i lampi illuminavano la stanza a tempi regolari e i tuoni mi investivano, assordanti come bombardamenti, anticipati solo dallo squarcio luminoso nel cielo scuro. Ero affacciato alla finestra, una mano poggiata al vetro a diffondere calore e condensa, il respiro ad appannare la visuale.

Lo scroscio dell'acqua che bagnava le strade era rilassante, ma non abbastanza da togliere la paura dei tuoni. Erano sempre in agguato, pronti a farmi sobbalzare come un bambino a cui è appena scoppiato un palloncino fra le mani.

Solo Julian poteva dormire tranquillo con quel rumore assordante. Julian e Chris, che si era addormentato con mio fratello mentre gli leggeva una favola. Li guardai e mi sorpresi a sorridere al buio. Trovavo rassicurante la semplicità con cui Julian era riuscito a farsi voler bene dai ragazzi della squadra.

Tornai a guardare oltre la finestra e un lampo illuminò a giorno il giardino davanti la mia stanza. Aggrottai la fronte e l'avvicinai al vetro per vedere meglio, ma solo grazie a un secondo lampo potei notarlo.

Uscii di corsa dalla porta, chiudendola alle mie spalle, e mi precipitai fuori.

Era lì, nel mezzo del temporale, che urlava contro il cielo, contro la pioggia e le nuvole. Lo raggiunsi, lo presi per le spalle e lo scossi, non sembrava vedermi o udirmi, continuava a sfogarsi contro la natura. Mi preoccupò vederlo in quello stato, non si scomponeva facilmente, perdeva le staffe, si arrabbiava, insultava, ma urlare in quel modo era tutt'altra cosa.

Gli diedi una spinta, facendolo spostare di un metro indietro, ma lui continuava a rivolgere le sue attenzioni al cielo notturno. Mi guardai intorno. Grondavo acqua, la sentivo scorrere fin dentro i pantaloni, ero fradicio e i capelli mi si appiccicavano al viso. Mi morsi il labbro per concentrarmi, ma non mi venne nulla di meglio in mente, così, lo colpii con uno schiaffo in pieno volto. La sua testa scattò dal lato opposto a quello appena colpito e le sue urla si fermarono. A quel punto avevo due opzioni: correre via e mettermi in salvo; aspettare la sua vendetta sotto la pioggia.

Peccato che i muscoli, forse infreddoliti per l'acqua o forse pietrificati dal terrore, si tramutarono in marmo e lì restai. Occhi sgranati, bocca sfessurata con rivoli di pioggia che vi entravano e mi bagnavano la lingua.

«Mi hai colpito».

«Sembravi pazzo».

«E tu mi hai colpito».

I suoi occhi, scuri più del cielo, più dei suoi stessi capelli che, sporadicamente, venivano illuminati dalla luce dei lampi, mi perforarono la pelle e la mente, inchiostro impresso nel mio cervello. Drew era paurosamente tornato in sé.

«Che ti era preso?».

Sfuggì dal mio sguardo e mosse un passo indietro per allontanarsi anche dal mio corpo. Ero quasi certo che sul suo volto, oltre alla pioggia, ci fossero delle gocce di pianto. Fu istintivo per me allungare la mano e far aderire il palmo con la sua guancia. Era caldo, assurdamente caldo, tanto che mi sembrò quasi di essermi bruciato a contatto con la sua pelle. Non tolsi, però, la mano dal suo volto e lui non si distanziò.

Mi lanciò un'occhiata e sembrò incrinarsi qualcosa in lui. Un muro di vetro che aveva avuto lo scopo di tenerlo al sicuro, lontano dalle emozioni altrui, stesso muro che aveva represso i suoi sentimenti nei confronti del mondo. Quel vetro era più fragile di quanto avessi creduto, andò in frantumi quando con il pollice disegnai la curva del suo zigomo bagnato. Chissà se il mio polpastrello aveva avuto modo di catturare una qualche lacrima.

«È oggi».

«Cosa?», corrugai la fronte.

«Il giorno in cui è successo».

La teoria dei calzini spaiatiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora