Capitolo 37

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Quando hai fatto di tutto per permettere a una vita così minuscola di crescere e diventare parte della tua esistenza, non puoi far altro che finire in apnea quando provano a portartela via. Non era stato programmato. Fu improvviso, impossibile da anticipare o da accettare. Fu una vera e propria irruzione nella mia vita, nella nostra di vita.

Non mi permisero nemmeno di fare domande, si presentarono semplicemente bussando con crudeltà. Lo presero ancor prima che io potessi allungare un braccio verso di lui e portarlo dietro di me, come quando lo proteggevo da qualche minaccia più grossa di lui. Ma quella, di minaccia, era molto più grande di qualunque altra, di me compreso.

Non feci in tempo a sfiorarlo che lo trascinarono fuori della stanza e quando provai a riavvicinarmi, ordinando loro di lasciarmelo, venni preso di peso da due poliziotti. Venni trascinato anche io, ma dalla parte opposta del corridoio. I miei piedi che scivolavano sul pavimento, le suole che cercavano un appiglio lì dove il linoleum era consumato dalle camminate nervose degli studenti.

Julian urlava, lui era stretto dalle braccia di un altro uomo, nemmeno ci arrivava al pavimento con i suoi piedini chiusi nelle scarpe di tela. Una slacciata, con i lacci che penzolavano. Era ancora così piccolo e bisognoso di qualcuno che si prendesse cura di lui.

«SAMUUUU», sentivo le sue urla disperate, vedevo le gambe scalciare l'aria, la sofferenza delle ginocchia sbucciate e l'inutilità dei suoi sforzi. Si dimenava, graffiava, urlava e... piangeva.

Piangeva disperatamente, fu quello a scatenare in me una forza che non avevo mai posseduto prima. Vedere il suo visino bagnato, la sua disperazione, i suoi vani tentativi di ribellione. Lui stava combattendo e io mi stavo arrendendo.

«Sa-Samu, l'hai promesso».

Il mio nome pronunciato dalla sua vocetta acuta, non chiedevo altro, non avevo mai chiesto nulla dalla vita, tranne di poterlo tenere per sempre vicino a me.

Puntai i piedi, digrignai i denti e mi spinsi verso quel richiamo. Verso di lui.

Scivolai via dalla presa dei poliziotti, mentre Julian mordeva il braccio dell'altro uomo.

Cadde sul pavimento e si rialzò alla velocità della luce, tutto per saltarmi tra le braccia nel momento esatto in cui io mi piegavo sulle ginocchia.

Lo strinsi con forza, con una mano gli accarezzavo la testa e con l'altra la schiena. Il suo nasino trovò il mio collo, le sue lacrime si asciugarono sulla mia pelle, i suoi singhiozzi vennero attutiti dal mio corpo. Portai il naso tra i suoi capelli e ne respirai il profumo... fragola.

«Sshhh, va tutto bene, cucciolo. Non succederà nulla, ti verrò a prendere presto».

Si aggrappava a me come se fossi la sua unica salvezza e io facevo lo stesso con lui. Sapevo che i miei compagni stavano facendo di tutto per tenere i poliziotti lontani da noi per concederci più tempo; sentii addirittura uno dei gemelli proporre a un poliziotto di arrestare lui, ma stavano finendo anche quei pochi minuti che ci restavano.

«Non voglio andare».

«Lo so, ma devi, almeno per ora, poi...».

«Sei il mio supereroe e i supereroi tornano sempre a salvare le persone».

«Certo», trattenni un singhiozzo e lo guardai, asciugandogli le guance con i pollici. I suoi occhioni blu erano bagnati, ma bellissimi.

«Ah, e Juju, non si mordono le persone».

Gli allacciai la scarpa slacciata, tirandogli su i calzini spaiati, uno con le macchinine rosse e l'altro con i gatti, e lo lasciai andare. Fu la cosa più dolorosa della mia vita: lasciarlo andare e vederlo allontanarsi.

La teoria dei calzini spaiatiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora