Capitolo 28

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La strada che conduceva ai dormitori, lì dove si sarebbe tenuta la festa che seguiva come da tradizione ogni partita, era buia e silenziosa. Avevo chiesto a Drew di lasciarmi solo, non perché la sua presenza mi facesse stare male, ma perché avevo paura del contrario. Temevo che averlo vicino mi facesse troppo bene, avevo paura che la mente avrebbe smesso di far vorticare i pensieri e che si sarebbe assopita, lasciandomi la libertà di respirare. Non volevo rendermi conto che ciò di cui avevo bisogno fosse a portata di mano, ma lontana dal cuore. Perché io mi dovevo imporre di stargli lontano, non perché non fosse giusto stare insieme, ma perché non volevo fargli ancora del male.

Aveva sofferto tanto per colpa mia, con che diritto mi sarei potuto ripresentare da lui e dirgli che era l'unico al mondo che mi permetteva di smettere di pensare. L'alcool per la mia dipendenza.

Costeggiai il giardinetto, ma non mi inoltrai, sapevo che c'erano delle panchine e delle altalene, ma volevo tornare al dormitorio, ritrovare la folla che, con il suo vociare, avrebbe nascosto i miei pensieri.

Mi fermai quando di fronte a me trovai una figura ferma, unica fonte luminosa l'estremità della sigaretta che si accendeva sempre di più durante i respiri del fumatore.

Provai a superarlo, ma lui mi vide e mi richiamò con la sua voce bassa e accusatoria.

«Puoi fare di meglio».

Mi voltai per fulminarlo e mi avvicinai a lui con due ampie falcate. Ora l'estremità lucente della sigaretta era a un palmo dal mio viso e illuminava il mio lo sguardo furioso, oltre che scaldarmi le guance. Avrebbe potuto scottarmi, ma non avrebbe fatto più male di quella singola frase.

«Lo hai letto sulle tue stupide schede?».

«Oppure è ciò che mi aspetterei da mio figlio», si strinse nelle spalle e fece un altro tiro, facendo diventare ancora più incandescente il tabacco che bruciava a pochi centimetri dalle sue labbra.

«Forse, se avessi avuto modo di dedicarmi solo a me stesso, mi sarebbe stato possibile raggiungere le tue aspettative, ma pensa un po'...avevo altro per la testa».

«Che è questa storia che Julian vive con te al college?», inclinò di lato la testa, facendo ancora un tiro.

«Non sono affari che ti riguardano», strinsi i pugni. Raccontare la mia vita ad Alejandro si era dimostrato un errore e dovevo fare attenzione ai miei passi successivi.

«Forse hai ragione, ma legalmente quel ragazzino è mio figlio e, se dovesse capitargli qualcosa, ci vado di mezzo io. Tua madre davvero lavora tanto, oppure... c'è qualcosa che non puoi dire?», dovevo aspettarmi che lui riuscisse a capire le problematiche della nostra famiglia, in fondo, lui era stato il primo a conoscere mia madre, ad innamorarsi e più di chiunque altro avrebbe potuto cogliere le mie menzogne riguardo lei. Probabilmente era consapevole del fatto che la sua fuga l'avrebbe fatta crollare e che non fosse possibile che trovasse conforto nel lavoro.

«Anche io ero legalmente tuo figlio, perché non ti sei mai preoccupato per ciò che sarebbe potuto capitarmi? Perché l'unica volta che ti sei interessato a me è stato per raccogliere dati riguardanti le mie capacità di lanciatore?».

«E non sei stato nemmeno all'altezza delle mie aspettative», avvicinò il filtro alle labbra, ma io afferrai ciò che rimaneva della sigaretta e la lanciai lontano. Le scintille rimbalzarono ritornando indietro e avvicinandosi alle mie scarpe consumate. Gli occhi ancora mi bruciavano per aver pianto nel ripostiglio, sulle guance probabilmente avevo i segni lì dove le lacrime avevano portato via la polvere del campo su cui mi ero fatto umiliare dalla squadra di mio padre e le labbra screpolate tiravano, facendomi percepire lievi scosse lungo la bocca tesa in un ringhio silenzioso.

La teoria dei calzini spaiatiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora