Capitolo 21

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Passarono due mesi, otto settimane monotone, senza grandi novità, il lavoro e gli allenamenti proseguirono senza intoppi, Juju riprese a tartassare di domande sia le maestre che me e Chris mi riempì di attenzioni. Attenzioni che non avrei mai pensato di volere, ma che effettivamente avevano la capacità di farmi rilassare.

Era un mercoledì, giornata tranquilla, dovevo prendere mio fratello a scuola e per quel pomeriggio gli avrei proposto di comprare un gelato tornando a casa. Solo che, non appena mi vide, invece di corrermi incontro come al solito, mi si avvicinò lentamente, mani nascoste dietro la schiena e testa china.

Fu istintivo il mio chiedergli: «Ju, cosa hai combinato?».

Scosse la testa e si guardò intorno. Lo osservai in silenzio, non aveva pianto, non sembrava nemmeno agitato, ma non voleva guardarmi comunque.

«Samu, mi prometti di non arrabbiarti?».

Questa è la domanda più infame che si possa porre. E ora vi spiego perché.

Se non si fa tale promessa, allora non si verrà mai a sapere cosa passa nella testa al bambino, ma se si promette di non arrabbiarsi, allora dovrai trovare un modo alternativo per reagire alla notizia che, senza ombra di dubbio, causerà la tua ira. Adesso, sapendo ciò, quale sarebbe la risposta migliore? Promettere e non mantenere la promessa, quindi arrabbiarsi comunque, oppure, promettere e implodere per la rabbia?

«Juju, quanto è grave?».

«Non lo è, grave».

«Mmh, allora prometto».

Rilassò le spalle e mi mostrò ciò che fino a quel momento aveva tenuto nascosto dietro la schiena: un volantino di una squadra di pulcini che si allenava nella sua scuola. Compresi leggendo, il motivo per cui credeva mi sarei arrabbiato, non si trattava di una squadra di baseball, bensì di basket.

Inspirai profondamente, cercai di non vederlo come un tradimento, bensì come una sua voglia di distinguersi. Ma il basket? Non bisognava essere alti per quello sport? Non sapevo nemmeno le regole base, tranne il fatto che bisognava fare centro con la palla in un canestro posizionato troppo in alto.

Lessi più volte le indicazioni scritte sul volantino e poi spostai la mia attenzione su Julian.

«Ne sei sicuro?».

«I miei compagni ci vanno».

«Qui dice che la prova sarà questo sabato, vorresti andarci?».

Allargò il sorriso e annuì euforico, aveva già capito di aver vinto contro di me, perché non avrei mai avuto il coraggio di impedirgli di praticare uno sport solo perché differente dal mio.

«Lo dirai te agli altri della squadra che diventerai un... come si dice? Cestista?».

«Baskettista?».

«Non credo, Juju», gli posai una mano sulla testa e lo condussi verso i cancelli della scuola.

Sulla strada del ritorno ci fermammo a prendere un gelato, come al solito lui prese il gusto puffo e per la metà se lo spalmò sulle guance. Sembrava qualcosa impossibile da imparare per lui: come mangiare un gelato senza sporcarsi.

Il sabato, alla prova di basket, c'erano una marea di bambini, quasi tutti più alti del mio Juju. Mi ero quasi convinto che le madri avessero barato sull'età dei figli nel momento dell'iscrizione. Mi inginocchiai accanto a mio fratello, senza distogliere l'attenzione dall'allenatore che sembrava avere pochi anni più di me, e gli pizzicai il fianco.

«Juju, mostra loro quanto sei forte», gli diedi una spintarella e lui trotterellò fino al centro del campo, voltandosi per mostrarmi il pollice e il sorriso euforico.

La teoria dei calzini spaiatiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora