Capitolo 46

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"Oh, Cielo! Signora Wilkinson alzatevi!" Dorothy era preda di un'insolita confusione.

 Diceva così perché ero una povera creatura affranta allungata sul pavimento, il corpo deturpato dal gelo notturno e, molto più probabilmente, dal terrore imminente.

 L'aria per respirare era così povera di luciditá!

 Riuscivo ad avvertire lo stantio timoroso aleggiare ed espandersi persino all'interno dei quadri affissi sulle pareti del corridoio.

 Non tornerà mai più, pensai.

 Ne ero certa, giacché i ricordi e la consapevolezza della veritá celata nelle parole di mia madre avevano avuto il potere di infrangere ogni mio barlume di speranza, accomiatando la mia -altrimenti- solita tranquillitá.

 Portai il capo tra le mani, le lacrime solcanti imperterrite la pelle delle mie dita, e il mio cuore, invece, sussultava in sincronia con i miei singhiozzi.

 Tempo addietro, credevo di poter comprendere quale fosse la vera sofferenza.

 Eppure, in quel momento, mi ricredetti: l'assenza di Bradley era la vera sofferenza.

 Mai come allora mi ero ritrovata a preferire la mia scomparsa a quella altrui!

Non potevi prendere me?

 Quella notte, Bradley piangeva, riversava al cielo le sue disgrazie, i tuoi timori, il suo vero essere, sentimenti celati dietro maschere!

 Feci la medesima cosa: innalzai il capo e sussurrai parole di perdono a Iddio, pregandolo di privarmi della vita, qualora le mie timorose supposizioni fossero state fondate.

 Dorothy si posizionó dinanzi a me, sorreggendosi su un solo ginocchio, le mani posate maternamente sulle spalle.

 Sembrò trasalire quando incrociò i miei occhi, perle oramai stanche di vita, lacerate dalla consapevolezza di non nutrire più certezze riguardo la felicitá.

 "Vi prego di seguirmi nella mia umile stanza, signora. Non intendo affatto lasciarvi in solitudine, questa notte!" E così dicendo, mi aiutò ad alzarmi, posando le mani sotto le mie braccia e sollevandomi delicatamente. "Sembrate così esausta!" disse, quando percorremmo il tratto breve del corridoio che divideva le nostre stanze.

 Le mie gambe! Oh, le mie gambe! Quale turbolenza inizió a scorrervi dentro!

 Ero così sicura di poter cedere!

 La stanza di Dorothy appariva buia e fredda, eppure la sua presenza fu utile per renderla affabile quanto bastava; le pareti, tuttavia, erano tinte di un flebile color ocra, alternato a spruzzi di un bianco panna che mi rammentò le tonalitá della mia veste, sottile coperta contro le avversità della vita.

 La buona donna era talmente in pena per me che mi avvolse con le lenzuola del suo letto, accontentandosi di sedere su una piccola poltrona, le gambe robuste intrecciate e la schiena dolorante piegata in una linea curva. "Dormite, ora!" Affiancò la poltrona al letto e allungò una mano per scostare alcune ciocche di capelli dalla mia fronte imperlata di sudore.

 "Oh, no!" riuscii a gemere, chiudendo gli occhi per contenervi il rammarico. "Come potrei, Dorothy? Mio marito! Dov'é quell'uomo che ho tanto disprezzato e che ora come ora amo forse più di tutti gli angeli del paradiso? Dove é, mio Dio?" Strinsi le lenzuola al petto ed espirai profondamente, rendendole maledettamente sudicie con le mie lacrime.

 Dorothy sussultò alle mie parole: sbarrò gli occhi, sbattendo ripetutamente le palpebre per assimilare la notizia; inclinò il capo e schiuse le labbra, lasciandovi sfuggire un sospiro incredulo. Dopodiché tentò di nascondere il curioso stupore con uno sguardo rivolto alla finestra, per poi prendere le mie mani e continuare a suggerirmi di dormire, poiché sosteneva avrebbe gioito alla mia salute.

Rifiuto e seduzioneWhere stories live. Discover now