Entführung

163 30 5
                                    

Alexa's P.O.V
28/10/17

Erano passate ormai due settimane dal giorno in cui mi ero dichiarata a Spencer, e io rimasi molto sorpresa quando lui mi confessò che provava esattamente le stesse cose.
In quel momento mi sentii così fragile, ma al contempo così forte e carica d'energia, come una splendida farfalla che volteggia leggiadra al soffio del vento, lasciando dietro di sé una scia di meraviglia.

Avevamo iniziato a frequentarci più spesso per vedere come sarebbe potuta funzionare tra noi, l'avevamo presa con molta calma, come era giusto che fosse.

Era il 28, il giorno del suo compleanno. Avevo deciso di regalargli la trilogia de "La Divina Commedia" divisa rispettivamente in "Inferno", "Purgatorio" e "Paradiso".
Sapevo che l'avrebbe probabilmente apprezzato, poiché era forse l'unico libro sulla faccia della Terra che non aveva ancora letto.

Così avevo fatto impacchettare dalla commessa della libreria i tre libri in una carta regalo a tema Halloween; lui adorava quella festa, aveva già addobbato, da quello che mi aveva raccontato, il suo appartamento con zucche intagliate e scheletri che s'illuminavano al buio.

Mi vestii normalmente quella sera, niente fronzoli, un normale abito nero per riflettere il mio spirito interiore e anfibi del medesimo colore.
Non ero mai stata una ragazza particolarmente femminile ed elegante, non mi piaceva essere notata e adocchiata da tutti. Volevo sempre restare lontana dagli occhi della gente, nascosta in me stessa.
-Di certo- pensavo -se una persona si trovasse davanti a dell'oro e ad una roccia basaltica, sceglierebbe l'oro per la sua lucentezza ed il suo valore. Bisogna solo trovare quella persona disposta a scegliere la roccia rispetto all'oro, per trovare al suo interno, una volta aperto, un geode di valorosissime ametiste.

Questo era il mio mantra: dimostrati a tutti per quella che sei interiormente, prima di farlo esteriormente.

Appena uscita dalla porta, mi assicurai di averla chiusa per bene a chiave, prima di incamminarmi verso l'uscita del Campus.
Una volta fuori dall'edificio, presi il telefono per mandare un messaggio a Spencer:

"Sono appena uscita di casa, ti aspetto."

Inviai il messaggio e sistematicamente riposi il telefono dentro la borsa.
Faceva molto freddo quella sera e della nebbiolina s'intravedeva in controluce ai lampioni gotici della via.
Un brivido mi pervase la schiena nell'esatto momento in cui una berlina nera accostò sul marciapiede dal lato passeggeri: doveva essere Spencer, ma non riuscii a vedere bene a causa dei vetri appannati.

Aprii la portiera per salire e mi accomodai seduta, distaccando un po' lo sguardo dal suo viso per l'imbarazzo. Nonostante ci stessimo frequentando, c'era ancora della timidezza da parte mia.

Sentii un quasi impercettibile "click" provenire dallo sportello, e un simultaneo alzarsi della sicura.
Le cinque porte dell'auto erano appena state chiuse e ora in macchina era calato il silenzio più tombale.
Con la coda dell'occhio riuscii a intravedere una mano vestita di un guanto in pelle nera che si poggiava fermamente sul cambio.

Non volevo neanche pensare alla più brutta delle ipotesi, ma dovevo.
Studiavo quelle cose quotidianamente, studiavo rapimenti, adescamenti ma soprattutto studiavo come evitarli.

Eppure, quella sera avevo abbassato la guardia.

Il panico non mi consentì ancora di girarmi verso quella persona che ormai era chiaramente tutt'altro che Spencer.
Dallo specchietto laterale riuscii ad intravedere una figura totalmente vestita di nero, con un passamontagna in viso che non ne consentiva il riconoscimento facciale.
Iniziai a smanettare sulla portiera per togliere la sicura e scappare via da quello che si sarebbe trasformato nell'inizio della mia fine, ma tutto risultò vano, poiché non appena provai a scappare sentii una fortissima botta in testa che mi fece perdere i sensi, poi il buio più profondo.

Mi risvegliai su un morbido materasso di un letto a baldacchino a due piazze, con la coperta dai toni rosacei rimboccata per bene fino a cingermi il corpo totalmente.
La spostai da sopra di me, e notai che i miei vestiti erano diversi; non avevo più il mio vestito nero, ma solo un'attillata canotta grigia e dei pantaloncini neri aderenti, sportivi.

Balzai in piedi, guardandomi intorno.
La stanza era completamente perfetta.
I mobili erano tutti in legno chiaro, delicati, una scena già vista.
L'armadio a 2 ante, aperte momentaneamente, ospitava vestaglie di diversi tipi dai toni pastello.
Sopra il comò c'erano foto di me da piccola e tra di esse, incorniciata, v'era una foto con mio padre e mia madre.
Sul muro di carta da parati rosa, vidi disegni appesi con delle scritte sopra.
"Alexa Rossi, principesa de l renio perduto"
Questo disegno lo avevo regalato a mio padre, me lo ricordavo bene.

Accanto ai disegni notai il quadro "Las Meninas" di Velázquez.

La stanza dove mi trovavo non era altro che la riproduzione della mia cameretta d'infanzia.

Sentii il terreno mancare sotto i miei piedi e caddi in ginocchio sulla morbida moquette bianca.
Le guance mi bruciavano come un falò, alimentato dai ricordi di un'infanzia tormentata.

Chinai la testa all'indietro per rimandare in dentro le lacrime che ormai stavano affiorando ai miei occhi, chiusi, per non dover vedere ancora tutto ciò che avevo così tanto amato da piccola.

Non appena aprii gli occhi, liberati delle loro lacrime, notai una telecamera puntata contro di me su un angolo della stanza, posta tra il soffitto e la parete, con la piccola luce rossa accesa lateralmente: stava filmando.

-Che vuoi?- tentai inutilmente di urlare -chi sei?

Simultaneamente al mio imprecare, la porta metallica e pesante della camera si aprì leggermente, da sola, o comunque comandata a distanza da qualche marchingegno sconosciuto a me, invitandomi ad uscire dalla camera.

Non avevo alcuna intenzione di uscire.
Sebbene fossi stata in un qualche luogo sperduto nelle mani di un maniaco, mi sentivo al sicuro.
Cercai così di ignorare la porta, ma mi fu impedito.

Un allarme martellante scattò improvvisamente, spaventandomi a morte.

Mi alzai in piedi cercando di gridare di farlo smettere, ma non riuscivo neanche io stessa a sentire il suono della mia voce.

Notai che, man mano che mi spostavo verso la porta, il rumore diminuiva.
Il Soggetto Ignoto voleva che uscissi, a tutti i costi, e non si sarebbe arreso finché non fossi uscita.

Così mi incamminai terrorizzata verso il corridoio buio, fuori da quella stanza così rosa e familiare, che sentii portata via da me non appena la porta metallica si richiuse dietro le mie spalle.

Camminai tastando il muro, poiché il profondo buio mi impediva di vedere cosa ci fosse davanti ai miei occhi, ma alla fine di quel corridoio che sembrava infinito, vidi una luce, fioca ma percettibile, che mi rassicurava incredibilmente.
Mi diressi verso di essa, senza mai fermarmi, continuando sempre a tastare il muro per evitare qualche tranello nascosto.

La luce era emanata dalla lampada di una stanza grigia, monotona, fredda, all'interno della quale si trovava solo un uomo con una t-shirt grigia e un paio di pantaloni neri, esattamente lo stile di abiti che avevo addosso io.
Mi precipitai verso di lui, poiché mi resi conto che eravamo nella stessa barca; eravamo entrambi spaventati a morte, vittime di uno psicopatico senza volto né nome.

-Come ti chiami?- cercai di stabilire un contatto umano.
Lui mi guardò stranito, come se fossi in qualche modo una sua nemica, ma poi si arrese a questa ipotesi vedendo che i miei vestiti erano come i suoi.
Iniziò a parlare, schiarendo prima la voce rotta dal pianto
-Augustus...Augustus Myers.-

FINE PRIMA PARTE

electra | spencer reidDove le storie prendono vita. Scoprilo ora