Legami di sangue

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"Electra!"
"Electra svegliati"
"Alzati ti prego"

Voci confuse riecheggiavano metallicamente. Suoni ovattati si facevano strada nel mio padiglione auricolare, raggiungendo il timpano e facendomi percepire parole sconnesse.
Un continuo e sordo fischio all'orecchio destro mi deconcentrava dall'ascoltare qualsiasi discorso.
"Electra, ci hai fatto spaventare"
Spaventare? Di cosa? Non avevo fatto assolutamente niente.
"Si sta riprendendo, eccola"
Aprii gli occhi cercando di non rimanere accecata dalla luce della barra a led bianco attaccata al muro dinnanzi a me.
Mi si presentò agli occhi immediata la figura di Augustus, intento a tenermi la mano.
Subito cercai di ritirarla verso il mio petto, ma non ci riuscii. Non riuscivo a controllare il mio corpo. Non riuscivo a sentire la sensibilità degli arti. Non riuscivo a muovermi.
Provai a parlare ma anche la lingua sembrava incastonata nella mia bocca, rifiutandosi di obbedire ai comandi del mio cervello.

"Che c'è mamma, i sensi di colpa ti immobilizzano?"

E poi eccolo lì, aveva appena detto le cinque lettere che mi avevano più spaventata diciannove anni prima. Le cinque lettere che avevano stravolto la mia vita in un giorno qualsiasi.
"Signorina Rivera, lei è incinta, sarà una mamma."
Queste furono le esatte parole che la ginecologa del consultorio mi aveva sputato in faccia come una doccia fredda.
Un figlio dovrebbe meritare solo amore e null'altro da un genitore, eppure io, in quel momento, desideravo solo prendere una pillola e uccidere il minuscolo feto nel mio ventre.
Per cosa? Per egoismo? Forse.
Forse un figlio mi avrebbe rovinato la vita, non sarei più potuta andare nelle discoteche fino a tarda sera e le uniche notti in bianco che avrei più visto sarebbero state per cambiare pannolini e allattare.
Non desideravo questo, non a diciannove anni, non nel pieno dei miei studi, non per me.
In più ero stata appena abbandonata dall'uomo che ora mi stringeva la mano a non più di un metro da me.

"Mamma?"
Augustus simultaneamente mi lasciò la mano, facendola battere sul freddo pavimento.
"Electra, non sarà mica..."
Continuò a parlare in preda ai suoi stessi rimpianti di una vita passata ad ignorare quello che poteva realmente essere suo figlio.
Un essere ignobile, Augustus. Come da manuale. Il suo gelido sguardo mi scannerizzava il corpo capace appena di ritrovare la sensibilità, mentre la sua bocca si abbandonava ad un affannato espirare.

"Sì, sono io, papà"
Colui che avevo chiamato pazzo, squilibrato, maniaco non era altro che mio figlio. Sedeva probabilmente in una comoda sedia al centro di una stanza isolata, circondato da monitor e microfoni per controllare che tutti i personaggi del suo spaventoso spettacolo occupassero il loro posto nel palco.
Alexa era incredula, stessa cosa per Spencer. Ci guardavano senza riuscire a proferire parola, del resto come potevano, se nemmeno io e Augustus ci riuscivamo?
Il frutto del nostro amore si era rivelato essere un tremendo incubo, che come un boomerang, ritornava da noi dopo essere stato abbandonato.
Definirlo Karma sembra sciocco ma appropriato al contempo.

Riuscii ad alzarmi e a guardare verso l'obiettivo della telecamera.
"Non ti desideravo, Jackson. Non volevo che tu nascessi. Mille volte ho pensato di andare in clinica e farti diventare un piccolo rifiuto seppellito non so dove. Mille volte ho pensato di ingoiare un'amara pillola che avrebbe smesso di farti essere dentro di me per sempre. Mille, duemila, tremila volte l'ho desiderato. E altrettante volte invece ho semplicemente pensato che tu fossi la creatura più innocente di tutta questa storia. Specialmente quando ti ho abbracciato, ancora tutto sporco di placenta, quando ti ho messo al mondo.
Eri così fragile che se solo ti avessi stretto un po' più forte ti avrei fatto del male.
Avevo promesso a tuo padre di non coinvolgerlo nella tua vita, nel caso ti avessi mai avuto. Ma sapevo che andando avanti si sarebbe fatto vivo, o con te, o con me.
Così gli ho semplicemente detto di aver preso quella dannata pillola e che non c'eri più, non eri più un 'problema'.
Sei stato dentro di me 8 mesi e 25 giorni, e con la velocità di 3 minuti ti hanno portato via da me.
Avevo informato le suore in convento di non volere questo bambino, di non volere te.
Eppure quando le tue manine hanno toccato la mia pelle non volevo più lasciarti andare.
Ma dovevo, non potevo permettermi di mantenerti, se a malapena mi mantenevo io con il misero stipendio da barista di trecento dollari.
Ti ho affidato ciecamente a una di loro sussurrando 'Jackson'.
Volevo ti chiamassi così, era il nome che sognavo per un ipotetico figlio, che ipotetico ormai non era più".

Non sentii più niente; un respiro, un suono, una voce. Niente.
Così per una decina di secondi, finché Jackson esordì con
"Alexa, Spencer, correte e andatevene"
E fu così che non li vidi mai più.

electra | spencer reidजहाँ कहानियाँ रहती हैं। अभी खोजें