Capitolo 1 PROBLEMI

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<<Così non può andare avanti ragazzina>> mi dice la preside con il suo solito tono autorevole, anche se questa volta, nonostante la sua voce calma, riesco a percepire una nota di dispiacere nella sua voce. Strano, ho sempre visto la preside come una donna fredda, quasi glaciale, ma evidentemente mi sbagliavo, anche lei ha un cuore e chissà perché ha deciso di dimostrarlo proprio ora, anzi, lo so: mi caccerà via dalla scuola, anche se so che non lo farà, non ha il coraggio. Ormai è la quinta volta in un semestre che sono seduta in questo ufficio, su questa sedia che ormai porta sopra un cartello con il mio, perché ho scatenato una rissa, solo che questa volta qualcuno si è fatto male, e non poco.

<<Sa che me ne importa>> le rispondo freddamente, anche se non lo penso veramente, distogliendo lo sguardo dal suo viso e indirizzandolo verso il vuoto. Sono terrorizzata, ma non posso farglielo vedere. Oramai sono la ragazza ribelle, quella casinista e che ama le risse e non posso dimostrarle che non sono quella persona, ormai la mia immagine è fatta. Inizio a torturarmi le mani, come faccio ogni volta che sono presa dal nervosismo. Quando Mrs Pitch, la preside, ricomincia a parlare cerco di sostenere il suo sguardo. La cosa non è molto difficile, visto che Mrs Pitch ha gli occhi di colori diversi, e questo è abbastanza ipnotico. Una volta, mentre ero in questa stanza a causa di un'ennesima rissa, mi ha anche spiegato perché aveva gli occhi così. Se non mi sbaglio a causa di una cosa genetica chiamata mosaicismo, ma, sinceramente, non ero stata molto attenta, come mi capita molto spesso anche durante le lezioni noiosissime di Mr Green, il mio insegnate di storia.

<<Questo non va bene Lilith, hai fatto finire un ragazzo in ospedale questa volta. Mi trovo costretta a espellerti. Ora puoi andare>>

Il mio cuore smette di battere per un momento. Espulsa, sono espulsa, non posso essere espulsa. Me lo aspettavo, ma non pensavo che... che... avesse il coraggio di farlo veramente. Cavolo, questa volta l'ho fatta veramente grossa.

Mi alzo violentemente dalla sedia e la faccio cadere a terra, ma non mi importa. Apro la porta della presidenza, una bellissima tavola di legno scuro con al centro una finestrella di vetro opaco con su il nome e il cognome della preside. Esco da quell'ufficio infernale e sbatto così violentemente la porta che per un momento ho il terrore che si possa rompere in mille pezzi. Mi avvicino al bancone della segretaria, Emily. Io ed Emily oramai abbiamo fatto amicizia, viste tutte le volte che sono stata qui. Emily è una ragazza sui 29 anni, alta, magra, bionda e bella da togliere il fiato. Ogni volta che la guardo il suo aspetto mi fa ricordare che non potrò mai essere così bella.

<<Lilith, mi dispiace molto per la tua espulsione, ma te lo avevo detto di non combinare altri guai>> mi dice Emily con un filo di voce. Lei è l'unica persona in tutta la scuola che probabilmente è dispiaciuta veramente per come sono andate le cose e che sa, più o meno, perché mi comporto sempre male e perché faccio a botte con i ragazzi.

<<Non dispiacerti Emily. Posso riavere la mia borsa?>>

<<Certo>>. Emily si abbassa sotto la scrivania e mi porge la ma borsa nera, logora e piena di libri.

<<Grazie>> dico con un filo di voce. Prendo la borsa e mi immetto nel corridoio della scuola a testa alta. Quando esco sento mille occhi puntati addosso e tutti che sparlano di me, ma non mi importa per niente, perché tanto non rivedrò mai più questa gente che non fa altro ch prendermi in giro e che mi fa continuamente scherzi. Vado verso il mio armadietto, il numero 17, e cerco di aprirlo. Ho le mani sudate e che tremano dalla rabbia e non riesco a far scattare il meccanismo del mio lucchetto.

<<Cavolo!>> urlo e do un pugno al lucchetto così violentemente che cade a terra disintegrato. Mi stacco dall'armadietto con un balzo e fisso il lucchetto a terra, distrutto. Come è possibile che l'abbia rotto? Probabilmente era già mezzo spaccato e io gli ho dato solo il colpo di grazia. Sì, deve essere così. Mi accascio e prendo il lucchetto, guardandolo con un'espressione interrogativa e con sospetto, come se da un momento all'altro potesse animarsi e prendermi a pugni, come io ho fatto con lui. Apro di corsa il mio armadietto e prendo tutte le cose che ci sono dentro: libri, quaderni, matite, foto dei miei amici che ora non mi rivolgono più la parola, la lettera scritta in una lingua incomprensibile che i miei genitori hanno lasciato nella mia cesta quando mi hanno abbandonata, anche se sento dentro di me che non mi hanno abbandonata, ci deve essere stato un altro motivo per spiegare ciò che hanno fatto. Prima di chiudere l'armadietto mi osservo al piccolo specchio appeso all'anta. Ho un aspetto diverso dal solito: ho le occhiaie sotto gli occhi, la pelle candida come la neve, le labbra rosse come fuoco. Lancio lo specchio nella mia borsa e la chiudo, o almeno, cerco di chiuderla, visto che è mezza scassata. Sbatto l'anta dell'armadietto, mi metto la giacca di pelle nera attillata, la borsa in spalla e mi giro, pronta per passare in mezzo all'inferno sotto gli sguardi di mille ragazzi e ragazze che sparlano di me: "ma hai sentito cosa ha fatto?"; "menomale che la preside l'ha cacciata, era una minaccia"; "hai saputo che l'hanno cacciata da molte altre scuole?"; "ora è chiaro perché i suoi genitori l'abbiano abbandonata". Mentre passo in mezzo alla gente il mio cervello è scollegato, sento solo il suono dei miei tacchi che riecheggia in tutta la mia testa e penso solo a cosa mi succederà ora. Finalmente, dopo quella che mi è sembrata un'eternità raggiungo l'ingresso della scuola ed esco. Fuori piove a dirotto, ma a me non interessa, e rimango per un paio di minuti sui gradini del liceo Jefferson sotto la pioggia battente che mi inzuppa i lunghi capelli rossi. Chiudo gli occhi e mi lascio trasportare dal rumore della pioggia, dal freddo che entra nella ossa. Quando riapro gli occhi, dopo un paio di minuti, dall'altra parte del parcheggio davanti a scuola, c'è una macchina nera che mi aspetta: è quella di Garrett, cavolo, non va per niente bene.

Helven: tra inferno e paradisoWhere stories live. Discover now