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Il 25 aprile Genova, Milano e Torino vennero liberate. Come a Bologna, ai tedeschi fu posto il quesito di fuggire o perire. Soltanto a inizio mese, i torinesi avevano indetto uno sciopero contro la fame e il terrore nazifascista, qualsiasi attività si fermò.
Ora i torinesi erano ammassati per strada. Le vie erano intasate di alleati e partigiani a bordo di camion, la gente li guardava esultante, gridava di gioia e sventolavano delle bandierine italiane.
Patrizio non volle godersi i festeggiamenti. Pensava ancora a quell'uomo. Sapeva chi era, ma non poteva dirlo. Pensò che fosse un sollievo non aver scritto nulla sul diario che diede all'amico.
Nel frattempo per i fascisti le cose si mettevano male: il 27 aprile Mussolini, nel tentativo di sfuggire alla disfatta definitiva del fascismo, venne arrestato a Dongo, dalle poche informazioni confuse che ebbe dalla gente, Patrizio capì che stava fuggendo verso la Svizzera. Nella serata del giorno dopo iniziò a circolare la notizia che i corpi di Mussolini, della sua amante Claretta e altri gerarchi fascisti erano appesi dai piedi in giù sulla pensilina di un benzinaio Esso di Piazzale Loreto a Milano.
"Sarà pure atroce ma è quello che si meritano" commentò Patrizio il 29, mentre leggeva la notizia riportata su tutti i giornali che stavano lentamente riprendendo le pubblicazioni. Fu molto colpito in particolare della figura di Claretta diventata amante per dedizione e amore dell'uomo più pericoloso d'Italia. Il loro era stato, agli occhi di Patrizio, una relazione irragionevole, fredda e distaccata. Eppure, secondo lui, Claretta non amò realmente quell'uomo con cui si scambiavano 31 anni di differenza. Si ricordò di quella dolce e bella ragazza, Anna. Ricordava che gli aveva detto che abitava in un convento.

Nonostante sapesse che non l'avrebbe mai più ritrovata, si diresse nel luogo in cui avevano scambiato le loro ultime parole. Era diventato un angolo strano. Era passato solo un mese ma sembrava un anno intero e il cumulo di macerie non c'era più. Anche gli edifici, sembravano come se fossero stati spolverati. Era il primo pomeriggio e faceva già caldo. Attraversò la via incredulo. Il sole brillava, sembrava una speranza per il futuro. Non trovò nulla. Arrivò in una vecchia zona dove l'unico simbolo di vita era un grande casermone in mattoni a tre piani sulla cui sommità c'era una scritta ormai quasi illeggibile che riferiva il santo a cui era attribuito il convento. La porta d'ingresso era alta e stretta, in castagno. Aveva una piccola finestrella con una tendina al centro attorniata da ferri. Bussò. Non dovette aspettare molto, la tendina si spostò rivelando un occhio accusatore.
"Chi è?" chiese la voce tuonante. Inizialmente balbettò qualche parola a caso, poi si ricompose
"Cerco una certa Anna"
"Non ha risposto alla mia domanda" disse la voce abbassando il tono. "Sono Patrizio Zani"
" E chi cerca?"
" Anna"
" Anna chi? Qui ne abbiamo cinque di Anna"
Per poco Patrizio non bestemmiò davanti la suora, si ricompose e descrisse il poco che si ricordava indicando il colore dei capelli. La tendina si richiuse e un silenzio tombale piombò tra lui e quella porta. Che lo stessero ignorando? Poi però la porta cigolò e si aprì mostrando interamente la figura con cui Patrizio aveva interagito pochi secondi fa. Era una donnina molto piccola e in carne. Completamente vestita di nero e con un velo bianco. Il volto era incorniciato dentro la cappella. Gli fece cenno di accomodarsi. Camminarono per un lungo corridoio costellato di mattonelle impolverate con motivi geometrici gialli e neri. Il soffitto era altissimo e sembrava crollare pericolosamente sopra di loro. Lungo il corridoio le finestre erano altissime, avevano delle sbarre permettendo poca luce all'interno. "Ha sentito la novità? Mussolini è morto" disse Patrizio per smorzare il silenzio di quel luogo così chiuso e buio e per parlare di qualcosa.
La suora sgranò gli occhi, prese la croce incastonata in una collanina e mormorò qualcosa.
"Perché la cerca?" chiese la suora. "Per ringraziarla" disse sapendo di mentire benissimo. Arrivarono davanti una porta in ferro.
"Lei si sieda lì e aspetti" disse la suora indicando una panca in marmo messa alla fine del corridoio, isolata. Patrizio ubbidì e prima di potersi sedere la suora era già sparita dietro la porta. Non aspettò tanto che la porta si aprì e Anna uscì. Aveva un vestito squadrato color blu con delle spalline molto ampie. Era radiosa.
"Che ci fai qui?" chiese lei sorridendo e arrossendo allo stesso tempo ma mantenendosi a distanza da Patrizio che la guardava estasiato. Aggrottò la fronte.
"Ti devo dirti una cosa"
"Ci penso da quando ci siamo incontrati" disse lei distogliendolo dai suoi pensieri.
"Pensare a cosa?"
"Che secondo me da quando ci siamo visti i nostri sentimenti sono reciproci" disse lei seria, storcendo la bocca.
"Vuoi dire ..." balbettò lui.
"Vuol dire questo" disse lei mettendo una mano attorno al collo di lui, lo guardò negli occhi, si rilassò. All'unisono socchiusero gli occhi per assaporare meglio il dolce momento che sarebbe venuto di lì a poco e nel frattempo il mondo girava nello spazio senza fine con gli amori appena nati e già finiti. Fu un momento tenero e dolce che però venne interrotto da dei passi. Si staccarono immediatamente e spuntò un'altra suora. Squadrò da capo a piedi Patrizio. Ma loro ridevano sommessamente. Le suore si unirono in unico coro per mandare via Patrizio e farlo aspettare fuori mentre Anna si preparava. Avevano deciso di fare una piccola passeggiata. Fu molto breve, prima che uscisse, le suore imposero ad Anna di ritornare entro due ore e se nel caso Patrizio si sarebbe rivelato un poco di buono, di scappare e affidarsi alla religione. Nonostante le due ore, passeggiarono credendo di attraversare tutta Torino. Si confrontarono sull'attualità, su tutto. E alla fine, tra le risatine isteriche di Anna e l'imbarazzo di lui, Patrizio gli prese le mani e sotto la mole Antonelliana gli chiese di sposarlo. Cosa che venne felicemente accolta da Anna.

Il giorno dopo l'armistizio della Germania, Patrizio ritrovò un suo amico. Si chiamava Gaudenzio, lo trovò triste ed emaciato.Gaudenzio gli chiese, nei giorni successivi, di portarlo a Roma per sbrigareuna faccenda. Riuscì a procurarsi una macchina ma alle porte di Roma successe il peggio: Patrizio venne arrestato, fu accusato di collaborazionismo con la Repubblica di Salò. Venne caricato a forza sul furgone e, mentre in una frazione di secondo vedeva Gaudenzio disperarsi, un violento colpo lo fece tramortire sulla testa: era una pala.
Si sentì colpito alle costole con tale violenza che l'occhio destro si offuscò. Piegò un ginocchio a terra per cercare di difendersi, ma i suo assalitori lo colpirono più volte e non vedeva più nulla. Erano in cinque con lui. Venne ripetutamente preso a calci e pugni mentre sputavano e inveivano contro di lui. Uno degli uomini lo sollevò per i capelli e gli infilarono in bocca un miscuglio di escrementi e acqua. Vomitò un liquido accompagnato dal sangue. Lo sollevarono completamente in piedi e uno dei più corpulenti venne alle sue spalle con una grossa sbarra di rame per colpirlo. Le sue pupille si erano riempite di rosso e le lacrime cominciarono a scorrere. Sentiva solo un liquido caldo che gli scorreva sul braccio. Il suono degli insulti si confuse con quello dei calci. Soffriva così tanto che il suo petto continuava a contorcersi. Aveva cercato di vendicarsi, ma non aveva più forze. Aveva la faccia sul metallo del furgone mentre uno dei più piccoli si sedeva sulla sua schiena. Attraverso quel velo di lacrime si chiese chi l'aveva messo lì dentro. Perché? La sua vita d'improvviso era diventata un disfarsi di un'immagine in bianco e nero sbiadita. In qualche modo oscuro e doloroso, sapeva che la sua vita, dopo aver evitato bombardamenti e l'essere ucciso dai tedeschi, si stava staccando dalla sua anima.
Venne portato al carcere di Regina Coeli e sbattuto in una cella.Quando si riprese, ricordandosi di dove si trovasse, una vecchia e buia cella con solo un materasso, si aggrappò alle sbarre, le scosse ma quelle non si smuovevano. Urlò diverse volte di liberarlo, alle forze che passavano lì davanti per calmarlo, urlava loro di essere dei luridi bastardi fascisti. I giorni passarono e Patrizio non se la passò bene, continuamente soggetto a insulti, pugni e calci.
Una mattina, 16 maggio, in totale silenzio un uomo venne a prendere Patrizio dalla cella.
"Mi liberate?" chiese " sarebbe ora" ma non ricevette nessuna risposta. Venne portato in una stanza buia e ben ammobiliata con una scrivania,una libreria vuota e nelle pareti delle foto che inneggiavano all'ormai defunto dittatore. Senza proferir parola, si sedette su una poltrona e lo lasciarono lì da solo. Dopo pochi minuti la porta si aprì e si girò. Non poteva credere ai suoi occhi. Era lui, l'uomo vestito da aviatore che aveva incontrato a Bologna, l'uomo che gli faceva tremare il sangue nelle vene; era Bruno Jacobi.
"Che ci fai qui?" chiese Patrizio. Jacobi, che aveva nella tasca dei pantaloni una pistola, si sedette dietro la scrivania, di fronte a Patrizio. "Guarda" disse con la voce tremante "l'hanno ucciso" disse indicando una grande foto di Mussolini appesa.
"Era quello che si meritava"
"No, era il nostro salvatore"
"Sei un pazzo"
"Meglio pazzo che partigiano" si avvicinò meglio a Patrizio "sai quanti ne ho uccisi di partigiani?" disse piano e quasi divertito "così tanti che neppure mi ricordo la loro faccia tumefatta" sospirò pesantemente
"Oh, ma la sua faccia la ricordo benissimo"
"Non lo dire" gli intimò Patrizio che fino a quel momento era stato con il capo abbassato.
"Si che lo dico. Ogni volta che ripenso a lei qualcosa in me si trasforma, non so ... ricordi il suo nome?"
Patrizio non proferì parola.
"Il suo nome era Gemma. O come si faceva chiamare, Spilla" disse con voce magnetica,come se stesse nominando una divinità.
"Non avevi nessun possesso su di lei. Vi eravate lasciati ed era finita"
"Non iniziare a fare il moderno. In Italia non esiste il divorzio"
"Non eravate neppure sposati" incalzò lui.
"Ci amavamo e questo bastava e avanzava" disse alzando la voce
"e poi l'avrei sposata lo stesso. Sai che il tuo amico è qui a Roma?" "Gaudenzio?" chiese Patrizio. "Proprio lui, quel tipo. Sembra uno stupido"
"Sappilo, è più intelligente di quanto tu immagini, abbiamo studiato assieme"
Jacobi sospirò "La classica amicizia che non conosce ostacoli e bufere.
Conosco tutta la storia" disse con indifferenza.
"Dimmi cosa vuoi"
"Cosa credi che voglia da te?" disse, si alzò davanti a lui e si mise a frusciare le dita.
"Non li avrai da me"
"Infatti li avrò dal tuo amico"
"Non te li darà mai"
"Hai ragione, quanto è crudele il mondo. Ora che ci penso, da quando è iniziata la guerra molti si sono dimenticati di rendermi soldi"
"Vai al diavolo!" disse Patrizio, si alzò dalla poltrona per incamminarsi verso la porta. Ma venne bloccato da Jacobi.
"Attento" gli intimò abbassando il capo e rivelando un sorrisetto minaccioso. Impugnò la pistola sul petto di Patrizio "non costringermi ad usarla. Ne su te e sul tuo amico. Anche quella ragazzetta che hai conosciuto,credo si chiamiAnna" "Come la conosci?"
"Non ti importa. L'importante è che tu non faccia un passo falso. Potrei anche aiutarti a uscire dalla prigione, ma non posso. Mi hai rubato l'amore" "Ti ripeto che è stato un caso"
"Come no, perché io ci credo" disse duro prima di aprire la porta e
affacciarsi al corridoio. Chiamò una guardia e gli ordinò di riportare Patrizio in cella.

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