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Pochi giorni dopo, quando Gaudenzio aveva iniziato a scendere dal letto e a sgranchirsi le gambe ,Giorgio portò una notizia a casa.

"Al Regina Coeli ti cercano" disse rivolto al cugino.

"Cosa vogliono da me?" domandò con un misto di ansia e curiosità, anche se sapeva bene quale fosse il motivo.

"Credo che sia per ..." avanzò Elena.

"Sì, è proprio per quello"

"Cosa vuoi fare?" gli chiese.

Gaudenzio inarcò le sopracciglia e sospirò "ovviamente ci andrò" rispose mettendo le mani sul tavolo "e voi mi accompagnerete"

"Noi?" domandò il cugino indicando prima Elena e poi se stesso.

"Sì, esattamente voi" ribatté "non è per codardia, solo per avere un po' di coraggio"

Elena gli buttò le bracci al collo "oh, amore mio" gli disse attorcigliando i capelli di lui nelle sue dita femminili "è ovvio che verremo"

"Bene, possiamo anche andare nel pomeriggio" proferì Giorgio.

Come stabilito, uscirono tutti e tre immergendosi nella brezza gelida di metà gennaio incamminandosi verso il carcere. Quando entrarono una delle guardie fermò Gaudenzio chiedendogli se fosse lui. Appurato ciò, la guardia lo accompagnò lungo un corridoio, fino a una porta. A Elena e Giorgio dissero di aspettare nella sala.

Dentro la piccola stanza c'era Jacobi e un uomo di media altezza, in carne, calvo, portava con sé un completo di colore grigio. Appena vide Gaudenzio lo salutò e chiuse la porta. L'uomo si aggirò lungo il tavolo per prendere un foglio e leggerlo. Frattanto, il torinese scrutò la stanza.

Era piccola. Una delle pareti era ricoperta da scaffali zeppi di cartelle e fascicoli. Di fronte vi era il tavolo a cui stava seduto Bruno. Dietro di lui, invece, c'era una finestra che dava su un ammasso di tetti e illuminava la stanza.

Bruno era a capo chino, sembrava più magro e stanco, inoltre in quei pochi giorni gli era cresciuta la barba che gli dipingeva il mento con tanti piccoli puntini. Lo guardò di sfuggita un sola volta.

"Lei si chiama Gaudenzio Cappelli?" domandò l'uomo.

"Sì, sono io"

"Renato Mancini" gli rispose tendendogli la mano che venne stretta dall'interpellato "si sieda pure" continuò indicando una sedia.

Si sedette di fronte al suo assassino e al capotavola si mise Mancini.

"Dunque ... lei conosce già Bruno Jacobi?"

Annuì.

"Può raccontarmi come l'ha incontrato?"

Acconsentì e iniziò a narrare dettagliatamente di quando era venuto a Roma a maggio per la prima volta, di come si fosse accorto della sua violenza e di Giulia. In quel momento non ebbe paura poiché Jacobi era in un carcere e quindi non avrebbe potuto fare nulla per ucciderlo nuovamente. Alla fine, Mancini annuì e con un gesto veloce della penna redasse sul foglio ciò che sentì. Poi si voltò verso Jacobi interrogandolo a raccontare i motivi per cui aveva rapito Gaudenzio e i crimini che aveva fatto negli anni e che erano spuntati solo in quei giorni.

Bruno si contrasse sulla sedia, sospirò e congiunse le mani.

"Sarà una cosa molto lunga che inizia già quando ero poco più che ventenne. Sono nato in un piccolo paesino della Ciociara vicino Frosinone. Sono solo quattrocento anime, si conoscono quasi tutti. In famiglia siamo otto fratelli. Eravamo una famiglia poverissima, come tutte, lavoravamo i campi e ci dannavano se non riuscivamo a portare un tozzo di pane in tavola. In paese qualcuno era partito per l'America e mio padre avrebbe fatto lo stesso se non fosse che mancavano troppi soldi. Quando compii sette anni iniziai ad arare la terra e aiutare mio padre e i miei fratelli più grandi. Non frequentai la scuola, come molti, e anzi, ero dell'idea che non mi sarebbe servita.

In pace e in conflittoWhere stories live. Discover now