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Il giorno in cui il giovane viaggiatore da ovest arrivò nel suo villaggio, il cielo era di un ceruleo che poteva rivaleggiare la polvere di pietra dell'Unione. Le dita di Estella erano immerse in fili scarlatti talmente sottili da riflettere la luce e da rischiare di tagliare la pelle se essa non fosse già stata ricoperta di calli. L'ago di osso navigava tra il turchino e il bruno alla spasmodica ricerca del punto esatto in cui avrebbe dovuto far apparire il prezioso rubino, portando gli occhi della ragazza a concentrarsi su nient'altro che i piccoli dettagli che avrebbero composto l'immagine nella sua testa. Una giovane avvolta in una tunica rossa al centro di un cerchio di donne danzanti. La cerimonia per Isabela, la seconda figlia di donna Marcela, si sarebbe tenuta all'inizio della luna nuova, quando il suo secondo mestruo sarebbe arrivato, perciò doveva affrettarsi.

Un arazzo era necessario per commemorare l'evento. Anche al compimento della sua cerimonia ne aveva ricevuto uno, che ricopriva l'angolo in cui lei dormiva. E quando si sarebbe sposata, l'arazzo in onore del suo matrimonio sarebbe stato talmente grande da tappezzare interamente il centro della capanna, che avrebbe ereditato in qualità di figlia maggiore.

Matrimoni, nascite, morti. Ogni avvenimento del villaggio era commemorato dall'arazzo di una tessistorie. E soltanto le donne della sua famiglia custodivano quell'arte. Trama e ordito, diceva spesso sua madre, erano le loro parole e le loro espressioni. I loro racconti non giacevano su labbra, ma su filo finemente intrecciato. Le loro dita custodivano la memoria di tutte le famiglie che le circondavano, dei loro antenati, dei loro figli, dei loro vecchi. Un avvenimento che non fosse prima stato ritratto da donna Hilda o da una delle sue figlie poteva anche cadere nel vuoto.

Quel giorno, però, le sue dita fecero cadere l'ago di osso non appena Rocío entrò nella capanna con irruenza. Sua madre, chiudendosi in un cipiglio contrariato, portò le mani ai fianchi.

-Che modi sono questi, bambina?

La giovane, dal canto suo, sembrava essere sorda alla collera della donna. Inginocchiandosi accanto a Estella, prese a scuoterle il braccio freneticamente.

-C'è uno straniero! Pare che sia un cantore! È così bello!

Estella, spalancando gli occhi, ci mise qualche istante per comprendere le parole di sua sorella. Uno straniero? Era raro che si avventurassero fino a lì. Era abituata alle coltivatrici dei villaggi vicini, stabiliti più a sud del fiume, che venivano per scambiare i prodotti che non riuscivano a produrre. Occasionalmente, mercanti arrivavano con piccole carovane pronte a vendere tessuti tinti con colori che non sapeva neppure esistessero. Ma cantori? Ne aveva incontrati un paio nella sua infanzia, ma non ricordava che aspetto avessero ne di che storie narrassero.

-Un uomo? Un uomo solo, per giunta?

Donna Hilda scosse il capo, stringendo le labbra.

-Un giovane, madre. Un ragazzo- ribatté prontamente sua sorella. La donna, però, non fece che far rombare la voce con  maggiore potenza.

-Ancora peggio. Che ci fa un ragazzo da solo nel bel mezzo del deserto? Come ha fatto a sopravvivere al viaggio? Ah no, mi puzza di sospetto, ve lo dico io!

-Ma madre!- sua sorella pestò un piede atterra, allungando le labbra in un broncio irritato. Estella, nel frattempo, aveva abbandonato il suo ago e il suo telaio per scivolare verso l'uscita, sfruttando la distrazione della donna.

Scostando delicatamente l'arazzo che nascondeva l'interno della capanna da occhi esterni, fece emergere timidamente la testa fino al naso, voltandosi a destra e a sinistra per scrutare attorno a sé. Sentiva voci concitate, ma non riusciva a vedere altro che le ragazzine intente a fiondarsi nelle proprie capanne con sorrisi eccitati e racconti del giovane sulla punta delle labbra.

Il filo turchino (K.TH)Where stories live. Discover now