Capitolo 59.2

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Sento una superficie fredda dietro la testa, apro gli occhi e mi ritrovo a fissare il ghiaccio che si scioglie lentamente tra le mie dita tremanti. Nei suoi occhi, profondamente preoccupati, vedo riflessa tutta l'intensità dell'affetto. Appena si accorge che sono tornata in me, mi afferra il viso con mani che tremano in modo frenetico e mi chiede con urgenza «Adele, come ti senti?».

Continuo a fissare il suo volto, mentre un dolore lancinante continua a pulsare implacabile nella mia testa, rendendomi incapace di pronunciare una sola parola. Dopo interminabili e angoscianti minuti, riesco finalmente ad alzarmi con il suo sostegno, ma la mia stabilità è precaria e devo stringermi a lui con tutta la forza che posso per evitare di cadere a pezzi.

«Mi fa così male la testa», riesco finalmente a sussurrare con un filo di voce, mentre la sua presa intorno a me si fa ancora più salda, come se volesse proteggermi da ogni male.

«Questa situazione non mi piace per niente. Ti porto al pronto soccorso», dichiara con una determinazione che trasuda una miscela di preoccupazione e risolutezza.

Dopo aver raccolto le nostre cose in camera, posso scorgere l'ansia dipinta sul volto di Tommaso mentre mi osserva. Ci dirigiamo verso l'auto parcheggiata e sento un lieve capogiro che minaccia di far vacillare il mio equilibrio. Mi aggrappo a Tommaso, cercando di mantenere un passo incerto. Il mondo intorno a me appare sfocato, avvolto in una nebbia sottile che sembra avvolgere anche il mio destino.

Arriviamo alla macchina, mi aiuta con attenzione a sistemarmi nel sedile, assicurandosi che sia comoda e al sicuro e una volta che sono a mio agio, Tommaso si affretta al posto di guida. Durante la corsa verso il pronto soccorso, l'aria è piena di silenzi tesi, interrotti solo dal ronzio del motore e dal fruscio delle gomme che sfiorano l'asfalto.

Quando finalmente arriviamo al pronto soccorso, Tommaso parcheggia in tutta fretta, facendo sibilare gli pneumatici mentre siamo ancora in movimento. Sento il brusio dell'auto che si spegne e la portiera si apre con un tonfo, invitandomi ad uscire. Tommaso è al mio fianco, sostenendomi amorevolmente in ogni passo mentre ci dirigiamo verso l'ingresso del pronto soccorso. L'atmosfera è densa di vociare di pazienti ansiosi e il costante suono delle macchine mediche, che riempie l'aria come una sinfonia di preoccupazione e speranza, sembra aggiungersi al tumulto delle mie emozioni.

Ci avviciniamo al banco delle accettazioni, dove un infermiera premurosa ci attende. Tommaso inizia a spiegare con voce concisa la mia situazione, cercando di trasmettere ogni dettaglio importante. L'infermiera ascolta attentamente, prestando attenzione a ogni parola pronunciata, e poi gentilmente ci indica una sala dove possiamo attendere. Mentre ci dirigiamo verso la sala d'attesa, sento il calore della mano di Tommaso sulla mia schiena, un gesto di conforto che mi fa sentire meno sola in questa situazione che mi spaventa così tanto.

Una volta entrati nella sala d'attesa, cerco di trovare una certa comodità sulla sedia. Cerco di scivolare leggermente verso il lato, in modo da poter appoggiare la testa tra il suo braccio e il petto. Il contatto con il suo calore mi avvolge come una coperta protettiva, donandomi un senso di conforto e sicurezza in un momento così incerto.

«Come ti senti?» mi chiede dolcemente, porgendomi un piccolo bacio sui capelli come gesto di tenerezza.

«È come se un macigno pesasse sulla mia testa. Non riesco a tenere gli occhi aperti», rispondo, lasciando trapelare tutta la mia fatica e debolezza. Le palpebre iniziano a farsi pesanti e le forze mi abbandonano gradualmente. Una fitta lancinante alla testa mi costringe a stringere con forza la sua mano, cercando un po' di sollievo.

Tommaso si volge verso di me, cercando di capire e condividere il mio dolore. Le sue labbra si muovono per pronunciare parole rassicuranti, ma tutto ciò che riesco a vedere è un nero profondo che inghiotte tutto intorno a me, mentre mi abbandono all'oscurità del passare dei secondi.

Riaprendo gli occhi, mi trovo confusa, immersa in un'atmosfera sterile e familiare. Le pareti intorno a me sono di un bianco accecante. La mia testa continua a pulsare, provocando un fastidio costante, seppur sopportabile. Alzo lentamente la mano per sfiorare il viso, e solo allora noto l'ago della flebo che si staglia sulla mia pelle. Un sussulto di ricordo attraversa la mia mente e comprendo di essere in ospedale.

Nella stanza si apre la porta e un'infermiera con il suo camice bianco entra con passo sicuro. Il suo volto è gentile, ma i suoi occhi rivelano una leggera preoccupazione. Si avvicina al mio letto con grazia e mi sorride affettuosamente. «Vedo che ti sei finalmente svegliata», afferma con voce rassicurante. Si china leggermente per controllare la flebo che mi è stata inserita e aggiunge con premura «La testa va meglio?».

Faccio un cenno affermativo con la testa, ma la mia mente è ancora annebbiata, in preda a una nebbia che sembra non voler dissolversi. Tuttavia, un unico pensiero persiste, scandendo il mio cervello «Speed».

L'infermiera, notando la mia distrazione, alza un sopracciglio interrogativo e chiede «Chi?». La mia risposta non si fa attendere, come un rifugio da quell'oblio che mi avvolge «Il ragazzo che era con me».

Un sorriso complice si disegna sul volto dell'infermiera.

«Ah, capisco di chi stai parlando... Credo che tu ti riferisca a quel ragazzo che sta facendo impazzire tutti nel reparto", dice con un tono di leggera ammirazione.

«Facciamo così, dato che è una serata tranquilla, farò una piccola eccezione», propone l'infermiera con un sorriso sornione.

«Potrà entrare nella stanza, così smetterà di dare di matto per il corridoio».

Dopo un breve momento di attesa, dalla porta compare Tommaso. Il suo passo è incerto, i suoi occhi riflettono preoccupazione mescolata a un briciolo di sollievo. Con un filo di voce, quasi timoroso, mi saluta «Ciao, come ti senti?».

«Come se mi fosse passato sopra un tir", rispondo cercando di sdrammatizzare la situazione, anche se la fitta pulsante nella mia testa è difficile da ignorare.

«Ho ancora un leggero mal di testa, ma sto bene, non preoccuparti".

Tommaso si avvicina al mio letto con cautela e prende delicatamente la mia mano tra le sue. Le sue carezze sono un balsamo per l'anima tormentata.

«Mi hai fatto prendere un bello spavento, sai?", dice con voce sommessa, il tono intenso e carico di preoccupazione.

«Dato che ti sei dato da fare in corridoio... Non ti hanno detto nulla riguardo a quanto è successo?», chiedo curiosa.

Lo vedo deglutire, consapevole del fatto che sono a conoscenza di quello che stava combinando. Poi aggiunge: «Sei andata in ipoglicemia. In pratica, il tuo corpo non era più in grado di produrre energia per svolgere le normali funzioni. Probabilmente, a causa degli allenamenti intensivi che hai affrontato prima della gara, uniti allo stress e a un'alimentazione sbagliata, i livelli di glucosio sono scesi al di sotto del minimo».

Lo sguardo di Tommaso tradisce un senso di colpa profondo, ma cerco di rassicurarlo «Tommy, non è stata colpa tua. Sarebbe successo comunque, anzi forse è stato meglio che tu fossi con me in quel momento».

Intrecciamo le nostre dita, un gesto di sostegno e affetto reciproco. Tommaso si avvicina a me e posa un dolce bacio sulle mie labbra, un bacio che porta conforto e speranza.

Dalla porta entra l'infermiera di prima, ancora sorridente, e si avvicina scherzosamente «Signorina, può tornare a casa, ma le chiedo di riposarsi per un paio di giorni. Ci siamo capiti?!» sottolinea quest'ultima frase guardando prima me e poi Tommaso.

Dopo circa mezz'ora, ci troviamo già in macchina, diretti verso casa. Mi volto nella sua direzione e, un po' imbarazzata, aggiungo: «Senti, non ti dispiacerebbe fermarti da me qualche giorno? I miei genitori sono fuori per lavoro e non mi sento a mio agio a restare a casa da sola».

«Molto volentieri», risponde con il sorriso sulle labbra.

Poco dopo, la stanchezza mi assale e finisco per addormentarmi.

Battito D'aliWhere stories live. Discover now