20. L'Assassino e l'amore

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Non trovavo il coraggio. Non trovavo le parole. Mi torturai le mani, il respiro affannato, lo sguardo puntato a terra.

Scusa mamma. Mi hanno preso. Era il mantra che continuavo a ripetermi.

Avevo ucciso una persona. No, avevo ucciso una persona e non me ne pentivo. E ora ne pagavo le conseguenze.

Strinsi gli occhi. Non volevo vedere la stanza intorno a me. Non volevo vedere le pareti di legno, il giudice, i funzionari del Re, la corte, i soldati. Non volevo vedere le mie mani incatenate, le due guardie alle mie spalle.

Ero solo un bambino. Solo un bambino.

Un assassino. Mani sporche di sangue. Bambino sporco di sangue.

Bambino sporco.

«Dove lo manderanno?» bisbigliò qualcuno della corte, dalle panche di legno. Potevo sentirli chiaramente. Aprii bene le orecchie, con lo stomaco che si attorcigliava dalla paura.

Io avevo ucciso. Avevo ucciso, ma non ero colpevole. Non potevo esserlo. Mi ero solo difeso.

Solo quello.

«Oh, non possono mandarlo a morte, è solo un bambino. Che direbbero i cittadini?» rispose l'altro.

«Dubito che le semplici prigioni possano bastare. Ha ucciso un nobile. Vorranno dare un esempio.» lo rimbeccò l'altro. Quell'uomo non era un santo. Ma era un nobile. Il che faceva di lui un intoccabile. Un dannatissimo intoccabile.

Sentii la gola serrarsi, chiudersi al punto da lasciarmi un solo filo d'aria a cui attingere per respirare. Coi polsi legati, strinsi i pugni, le dita attorcigliate e le mani giunte come in preghiera, serrandole fino a farmi sbiancare le nocche. Mi stava salendo un pensiero. Uno sgradevole, oscuro presentimento.

L'uomo rivolse all'altro uno sguardo complice.

«Lo manderanno , vero?»

Oh no. Oh Dio, no. Risparmiami. Tutto, ma non quel posto.

Il processo fu lungo, ma a me sembrò talmente breve che in un battito di ciglia era già tutto finito. Non mi soffermai a guardare il giudice. Avevo provato ad implorarlo con lo sguardo, a supplicare con gli occhi lacrimanti, ma non era servito a niente.

Avverti il rumore del suo martelletto. Ci fu il silenzio. Digrignai i denti, tanto da sentirli scricchiolare.

Mi chiamo Helias Bloomwood e non avrò paura.

Ripetei nella mente quella frase magica. Eppure, non riuscii a sentire altro che le parole pronunciate dal giudice.

«E' condannato a trent'anni di lavori forzati nel campo di Treblin.»

Quel posto dove ci mandavano i ribelli, i criminali. Quel posto dove i bambini potevano essere sfruttati per sgusciare nelle gallerie strette e asfissianti, a lavorare come schiavi. Quel posto dove vivere significava resistere per massimo tre mesi.

Era una condanna a morte.

Treblin sarebbe stata la mia tomba.

«...rego!» Qualcuno stava dicendo qualcosa. Non lo sentivo. Avevo le orecchie tappate.

«Ti prego, Dio!» sibilava con completa disperazione la voce. Le mani mi spingevano sul petto, movimenti ritmici che massaggiavano e rilasciavano. Una spinta e un rilascio. Bagliori di pioggia e luce dentro agli occhi.

Un terremoto interno. Sobbalzai e mi chinai di lato per vomitare un fiotto d'acqua sporca che si mescolò a quella che scorreva sui lastroni della strada. Lì vicino, il tombino era scoperchiato e i liquami continuavano a venire fuori.

Le cronache dell'Assassino 1 - Sfavillo | 𝑩𝒐𝒚𝒙𝑩𝒐𝒚 |Tahanan ng mga kuwento. Tumuklas ngayon