Capitolo 15

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Aspirai rumorosamente, bocca spalancata, il suono rauco fermo in gola. Sentendomi soffocare, iniziai a tossire, mentre mi tiravo su a fatica per sedermi sul letto bianco, duro e stretto. Coperte pallide se ne stavano ruvide sopra le mie gambe. Due cuscini, stropicciati dalla forma della mia testa, erano appoggiati dietro di me, leggermente alzati sulla spalliera.

- Piccola mia, stai bene? Chiamo subito i medici! - mia madre mi guardava con gli occhi lucidi, la voce tremante, insicura - Aiuto! Dottore, si è svegliata, venga subito! - corse fuori dalla fredda stanza dell'ospedale e subito due infermiere, vestite di bianco come tutto il resto lì dentro, si avvicinarono per tranquillizzarla. Il dottore intanto era entrato a passo svelto e mi guardava con aria confusa.

- Come ti senti? - qualche colpo di tosse mi pizzicava ancora la gola.

- Stanca - dissi piano. Il mio corpo faticava a muoversi. Sentivo gli occhi pesanti, le braccia molli. Le gambe erano ciò che percepivo meno. Fissavo le coperte e le muovevo lentamente con le dita delle mani, con movimenti rigidi che mi costavano parecchio sforzo.

- Lei chi è? - la voce austera del dottore mi fece alzare lo sguardo. Nathan era appoggiato con una spalla al muro, all'entrata della stanza. Le scarpe da ginnastica blu si intonavano con i pantaloni della tuta che cadevano morbidi sulle sue gambe. Dalla giacca aperta si intravedeva una maglietta grigia, aderente sul suo corpo scolpito. Incrociò le braccia, in una postura affascinante e minacciosa allo stesso tempo. Fissò intensamente il medico, gli occhi che si scurivano sempre di più, fino a diventare di un nero profondo. Poco dopo, il dottore se ne andò, chiudendo la porta dietro di lui. 

Nate si avvicinò a me. Seduto sul bordo del letto, mi accarezzò i capelli spenti, riordinandomi la frangia che sentivo appiccicata alla mia fronte. Osservò ogni mio lineamento e sorrise quando riscoprì le mie fossette. Delicatamente si abbassò sul mio viso e mi baciò, un bacio gentile, dolce, che nascondeva ammirazione e tristezza.

- È ora di andare - mi disse. La sua voce calda risvegliò i muscoli delle mie spalle, che abbassai rilassata. Mi prese in braccio, sembrava ancora più forte di quanto ricordassi.

Il mondo non si accorse di noi quando uscimmo. Per tutto il tragitto, dalla stanza in cui mi ero risvegliata al cortile dell'ospedale, nessuno ci rivolse uno sguardo. Nessuno ci chiese dove stavamo andando; se ero stata davvero dimessa. Un ragazzo con una paziente tra le braccia non doveva essere un'immagine consueta. Mi preoccupava di più cosa avrebbe pensato mia madre, non trovandomi più nella stanza. Immaginavo la sua preoccupazione che aumentava e il dolore che le stavo infliggendo. Pensavo a cosa avrei dovuto dirle, a che scusa mi sarei dovuta inventare. Ma Nathan non rispose al filo dei miei pensieri come faceva di solito. Era come se non li avesse sentiti. Così, osservando l'espressione dura di Nate, gli chiesi: - Cos'hai detto a mia mamma questa volta? -. Nathan mi guardò velocemente per poi riportare lo sguardo sull'auto a cui ci stavamo avvicinando.

- Sono felice che i tuoi ricordi siano intatti. Il dottore dirà a tua madre che sei stata trasferita in un istituto speciale e che non potrà vederti finché non avranno finito di farti i controlli appositi.

- Grazie, Nate - sapevo che quella era la soluzione migliore. Anche se non avevo idea della direzione in cui mi avrebbe portata.

Nate mi adagiò sul sedile.

- Ho tante domande, lo sai?

- Lo so. Vuoi iniziare ora facendomi la prima della tua lista? - un sorriso provocante gli illuminò il viso. Mi allacciò la cintura.

- Hai baciato Jennifer? - arrossii come mai prima di allora. Nemmeno io mi aspettavo una domanda così diretta, in un tono così accusatorio; perciò capii perfettamente l'espressione stupita, sopracciglia alzate e mento leggermente inclinato, che Nate aveva improvvisamente assunto.

ADULARIA - La LeggendaWhere stories live. Discover now