Chapter 3: Airplanes

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Michael

Ogni mattina un adolescente si sveglia e pensa a quante cose dovrà fare durante la giornata, prima di riposarsi o giocare ai video games o ascoltare della musica in pace. Pensa a quanti compiti dovrà svolgere o a quanto si divertirà con i suoi amici, in quel pomeriggio che hanno programmato giorni prima. Pensa a quale serie Tv cominciare o quale libro leggere, se cambiare la maglia che indossa o comprare un nuovo paio di scarpe. Pensa anche alle domande che ci saranno nella verifica, a quale voto prenderà o quali tecniche utilizzerà per copiare.
Ma alla fine sa perfettamente cosa deve fare. Forse lo ha sempre saputo.

Ogni mattina io mi sveglio e penso a quanti altri schifosi giorni dovrò passare a vivere in questo posto di merda, in una vita di merda circondato da gente falsa e narcisista solo perchè siamo tutti profondamente infondati e ci basiamo sui pensieri della nostra mente chiusa, vergine e inesplorata.

Ogni mattina mi sveglio e sento mia madre e il suo compagno litigare in salotto, vedo le cicatrici sulle mie braccia e due occhi stanchi riflessi nello specchio, contornati da un alone di solitudine che si espande a dismisura e mi fa sembrare malato.

Il mondo fa un po' schifo, da queste parti.

Ogni fottuta mattina mi trascino verso il bagno, prendo la solita pasticca dal barattolo degli antidepressivi e rimango per minuti interi a fissare lo specchio, il mio riflesso.

Lo faccio anche stamattina. Punto i miei occhi verdi su quelli della figura davanti a me, così fottutamente uguale che mi viene voglia di tirarle un gancio destro e trafiggermi i polsi con grandi scheggie di vetro fino a morire dissanguato.

Sorrido a quel pensiero.
Stupido e autolesionista. Esiste bomba ad orologeria più potente?

«Michael,» pronuncio rivolto a me stesso. Il tizio riflesso nello specchio alza un sopracciglio ed ha una gran faccia da cazzo. «Sei solo un illuso».
Poi mi sciacquo il volto senza più alzare lo sguardo e torno in camera, per cambiarmi.

Mi metto sulla sedia della scrivania e tiro fuori il quaderno dal secondo cassetto, mordendo la punta della penna.
Lo apro e osservo attentamente le pagine bianche davanti ai miei occhi.

"Giorno 32 dall'ultimo tentativo. 1 Gennaio.

Metodo: il grattacielo più alto della città.
Motivi per cui mi trovo ancora qui e non in una bara: i suoi occhi erano bellissimi."

Sorrido istintivamente mentre scrivo l'ultima frase. Cazzo se erano belli, quegli occhi.

Ancora con il sorriso e la mente persa mi vesto e metto lo zaino in spalla. Manca una settimana alla ripresa delle lezioni e ho quasi intenzione di riprendere ad andare a scuola giornalmente. Frequento il secondo anno per la terza volta e voglio almeno presentarmi per mostrare che un pochino me ne sbatte.

Scendo le scale in fretta e ignoro le urla di mamma e la Testa di Cazzo, così lo chiamo io. Esco dalla porta sul retro e prendo un respiro profondo, lasciando che i miei polmoni si ripuliscano un po'.
Poi inizio a camminare per il marciapiede e infilo le cuffie alle orecchie.

Se solo fossi stato solo, ieri notte, ora sarei solo un brutto ricordo. Qualcosa che ha fatto un gran favore all'umanità andandosene via, svanendo nel grigio di una fresca sera di Dicembre.
Ma invece c'erano i suoi occhi e – ancora una volta— le mie manie suicide dovranno aspettare per di darmi tregua.

Prima che possa accorgermene e scansarmi, qualcuno mi urta la spalla, dirigendosi nella direzione opposta alla mia. Ha una di quelle colonie che sono sicuro di aver già sentito. Mi volto e Luke Hemmings è a due metri di distanza da me. Ha gli occhi arrossati.

«Ciao,» lo saluto. Lui fa un cenno con il capo e apre la bocca per parlare, ma la richiude pochi istanti dopo.

Rimaniamo a fissarci. Oppure, io lo guardo e lui preferisce osservare le Vans nere che ha ai piedi. Dopo pochi secondi, il biondo gira i tacchi e continua a camminare nella sua direzione.
Faccio lo stesso per un paio di metri, peró non faccio ripartire la musica. Lascio le cuffie nelle orecchie, forse solo per attutire il rumore della vita che scorre, ti scivola tra le dita prima che tu possa realizzare davvero qualcosa di concreto. O forse perché sto aspettando qualcosa. Sì, è più probabile la seconda.

Silenzio. C'è silenzio nel piccolo quartiere in cui mi trovo. Niente feste, niente urla, niente pioggia, niente macchine che viaggiano per la strada rimessa a nuovo da poco. Solo la voce del ragazzo biondo e con gli occhi azzurri che «Insegnami a spegnerle. Le voci, i pensieri, insegnami a farli uscire dalla mia testa» dice.

Mi volto di nuovo e questa volta sono più metri che ci dividono. Scoppio a ridere e lui lascia cadere le braccia lungo fianchi, inerti.
«Non puoi spegnere qualcosa che è dentro la tua testa», quasi urlo.
Luke si avvicina a grandi falcate, i pugni serrati e gli occhi lucidi. «Tu ce la fai. Tu hai detto di sentire tutti quei pensieri, quelle frasi, le voci. Tu riesci a spegnerle. Come fai?»

«Vuoi la verità o una bugia?» Ora sussurro. Luke si morde il labbro inferiore e chiude gli occhi. «Una bugia».

«La bugia è che non c'è alcuna verità.»
«Potrei crearmene una.»
«Non puoi creare la verità su una base di bugie»
«Posso provarci».
«A cosa stai pensando?»
«Che la prossima volta devo buttarmi dal palazzo prima che arrivi qualcun altro».
«La triste storia della mia vita»
«Ci hai già provato?»
«A fare cosa?»
«Lo sai cosa»
«L'ultima volta è stata circa un mese fa»
«Come volevi farlo?»
«Tagliandomi le vene» mostro le cicatrici sul mio braccio e Luke sussulta. «Ti hanno aiutato prima che arrivasse la fine?»
«La fine era già arrivata» ingoio un groppo in gola «Forse da troppo tempo. Ho solo rimandato il capolinea fin quando la mia mente non ce la faceva più.»

«Ora come stai?»
«Schifosamente bene»
«È una bugia.»
«Lo so».

Solo quando punto ancora una volta i miei occhi nei suoi capisco cosa sta succedendo.
«Hemmings?»
«Sì?»
«Ti sei sballato?»
«Forse» ride.
Rido anch'io.

𝐂𝐎𝐔𝐍𝐓𝐃𝐎𝐖𝐍Where stories live. Discover now