Chapter 13: Catch Fire

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Aurora


Esco dall'ascensore e arrivo davanti alla porta che da sul tetto del palazzo. Le mie gambe non ce l'avrebbero fatta a salire tutte quelle scale e devo dare del filo da torcere a Calum; il gancio non si è spezzato e l'ascensore non è precipitato.
«Fottiti, Hood» sussurro.
Quando sto per poggiare la mano sulla maniglia arrugginita della porta di metallo, quella si apre e Luke Hemmings, trafelato e con i capelli scompigliati, mi sfreccia accanto iniziando a scendere di corsa le scale.

Rimango interdetta per alcuni secondi, poi «Luke!» lo richiamo, ma sembra non volermi ascoltare. Rischierà di ammazzarsi correndo in questo modo. «Luke, fermati!»
Cosa è successo?

Senza pensarci due volte comincio a rincorrerlo, scendendo tutte le rampe di scale fino al secondo piano. Lo vedo fermarsi quando si prende il volto tra le mani, poggia la schiena al muro e lentamente scivola a terra.
«Luke!» questa volta alza lo sguardo e lo punta su di me.

I suoi occhi sono arrossati, le sue gote color porpora e il suo corpo è scosso da tremolii. Sta piangendo ma finge di no, tossendo per camuffare un singhiozzo.
Mi avvicino a lui, chiedendo silenziosamente il permesso di sedermi al suo fianco.
Quando le persone si trovano in uno stato come quello di Luke, è sempre bene calibrare i gesti da fare o le parole da usare. Lo so per esperienza.

«Cosa succede?» chiedo, giocando con l'anellino attorno al mio dito. Il biondo scuote il capo «Vattene, ti prego».
«Luke,» sussurro «Se c'è qualcosa che ti fa stare male, devi parlarne. Magari non con me, non con gli altri ragazzi, ma devi farlo. Altrimenti tutto si moltiplicherà e sarà peggio.»
Non sono mai stata brava con le parole, eppure adesso parlo come se io e Luke ci conoscessimo da una vita.

Il ragazzo al mio fianco scuote il capo, sbuffando una risata. «Non capisci. Nessuno capisce.» Le sue dita scalfiscono le guance e sono costretta ad allontanare le mani dal suo volto prima che si possa graffiare.
«Aiutami a farlo, allora.»

Ma il biondo non dice nulla, si alza da terra e io mi limito a mordermi il labbro inferiore, incerta sul da farsi.
«Posso fare una cosa?» chiede. Aggrotto le sopracciglia e gli riservo uno sguardo confuso. «Che genere di cos-»
Ma non riesco a finire la frase, perchè le labbra di Luke Hemmings, la mia cotta da circa tre anni, sono premute sulle mie e inizio a pensare che questa vita sia tutto uno scherzo.
Le sue mani sono sulle mie guance, io istintivamente le porto attorno al suo collo.

Sento le sue labbra prepotenti, quasi stesse cercando nella mia bocca la risposta a qualunque cosa lo stia perseguitando. La sua lingua mi accarezza le labbra ma si ferma non appena apre gli occhi, spalancandoli.
Michael Clifford ci sta guardando e non sembra affatto felice.
Ci rivolge un mezzo sorriso tirato e se ne va, continuando a scendere le scale in silenzio. Io e Luke non preferiamo parola.
Ci guardiamo a vicenda, il suo sguardo confuso e quasi arrabbiato, il mio confuso e davvero sconvolto.

Mi sento come se ci fossero quaranta gradi di temperatura e io stessi correndo una maratona con un berretto di lana e un maglione natalizio.
Eppure sono al settimo cielo.

Sposto lo sguardo sul mio orologio e mi accorgo essere le sei di mattina. Sono state le sei di mattina più strane della mia vita.
«Cosa sta succedendo?» chiedo, tanto divertita quanto frastornata. Ho voglia di baciare di nuovo le labbra morbide di Luke, tuttavia mi trattengo distogliendo lo sguardo dal suo pearcing.
«Niente,» borbotta lui. Preme ancora una volta le sue labbra sulle mie e potrei giurare di aver sentito il mio cuore fare un tuffo dall'altezza di questo palazzo.

Prima che possa chiedere qualcosa di più o riprendere in mano il consenso delle mie facoltà mentali, Luke scende gli ultimi due piani di scale, lasciandomi sola a chiedermi se sia tutto vero o in questo momento sono ancora stesa sul mio letto, gli occhi chiusi e la mente persa in questo sogno dal quale non vorró mai svegliarmi.
Perchè io e Luke Hemmings ci siamo baciati e mi sento in grado di scavare l'Everest solo per urlarlo a tutto il mondo.




Quando arrivo a scuola sono le sette e quarantadue, quindi mi siedo in una panchina mentre, pian piano, il cortile viene riempito dagli studenti. Ho ancora l'odore di Luke sotto il naso e istintivamente sorrido.

«Non ti sembrano tutti così cazzoni?» la voce di Calum Hood mi fa voltare e lo trovo seduto al mio fianco, seppure a una distanza di sicurezza. Sbuffo una risata e lo guardo con un cipiglio in volto.  «Detto da te non suona molto veritiero. Per quanto ne ho potuto sapere tu fai parte esattamente di quella cerchia di cazzoni menefreghisti che frequentano questa scuola».

«Tu dici?»
«Proprio così».
«Ti è mai capitato di svegliarti e trovarti dentro una casa di estranei?»
«Cosa?» chiedo. Aggrotto le sopracciglia «In che senso?»
«In tutti i sensi. Ti è mai capitato di trovarti davanti il volto di una persona che conosci come le tue tasche ma non riuscire a riconoscerla?»

Sì, vorrei dire, ogni volta che sto con Sheryl.

«No» mento. Calum Hood mi rivolge un sorrisetto quasi malinconico mentre inizia a giocare con i lacci della sua felpa.
«Perchè, a te si?»
Si stringe nelle spalle e «No, nemmeno a me», borbotta.
Rimango confusa per alcuni secondi, poi capisco che sta giocando al mio stesso gioco. Un sorrisetto si forma nel mio volto all'idea che, per una volta, non devo essere io a stare al gioco degli altri.

«È meglio che vada» il moro si alza, poi si dirige verso il parcheggio e lo vedo rimanere seduto sul posto di guida della sua auto, le mani sul volante e il capo chino su di esse.

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