Chapter 36: I don't wanna fall, fall away

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Ashton

Tamburello la penna sulla scrivania, annoiato a morte. Non che in questi casi mi dispiaccia, in realtà, il punto è che qui mi pagano anche solo per tenere il culo incollato alla sedia. Sposto lo sguardo sul telefono alla mia destra sperando che squilli da un momento all'altro e mi aiuti a salvare una vita umana.
Per adesso la media sta a due, senza contare il club del 31 dicembre. Ogni tanto mi sento soddisfatto nel dirmi che forse, se sono ancora tutti vivi e vegeti, è anche grazie al fatto che ci fossi stato io lassù, sul palazzo. Il trentuno dicembre. È sempre un po' strano come il tempo e l'Universo possano giocare insieme, e come tu poi sia il gioco dei loro desideri. Forse se non ci fosse stata Aurora, o Luke, Michael o Calum io non sarei vivo, e forse nessuno di noi lo sarebbe. È questa, la sincronicità degli avvenimenti. Mi fa impazzire.

«Niente?» Amanda si sporge oltre la superficie in plastica spessa che divide una scrivania dall'altra. La sua si trova affianco alla mia, lungo un'altra schiera di scrivanie tutte uguali, tutte con lo stesso computer, il taccuino, il portapenne, il telefono che a volte squilla, a volte no.
«Niente», accenno un sorriso. «Ma è meglio così. Significa che nessuno ha intenzione di suicidarsi o scappare o uccidere qualcuno, oggi.»

«Magari hanno intenzione di farlo e proprio per questo non chiamano il nostro numero. Pure io, quando ero la nuova arrivata come te, aspettavo con ansia che qualcuno chiamasse.»
«E poi?»
«E poi hanno chiamato. E fidati, un conto è sentirle in tv certe cose, e un altro è avere dall'altro capo della cornetta qualcuno che sta per suicidarsi. Certe cose non le dimentichi facilmente. Ma ti stimo, sai? Sei ancora molto giovane e già pensi ad aiutare il prossimo.» Mi rivolge un sorriso e poi torna alla sua postazione.
Amanda è una veterana ormai, lavora qui dal giorno di fondazione ed è stata lei a trovarmi un posto. È amica di Mark, il supervisore al bar, e siccome avevo bisogno di un altro lavoro per pagare le bollette lui ha detto di conoscere una persona che mi avrebbe potuto dare una mano.

E adesso sono qui, seduto su questa scrivania, il lavoro più decoroso che abbia mai avuto, ad aspettare di entrare in azione. Come un supereroe. Non proprio. Qualcosa del genere.
Nel lasso di tempo nel quale cerco di distrarmi dalla noia inizio a ripassare mentalmente le frasi da dire nelle eventualità che qualcuno chiami, in cerca di aiuto.
Assicurati di trovarti in un luogo sicuro, l'indirizzo o il posto in cui ti trovi, nome, andrà tutto bene, non compiere gesti avventati, hai qualche arma con te?
Semplice e basilare.

Passo così all'incirca mezz'ora, poi il rumore di uno squillo irrompe nella stanza. Subito drizzo la schiena, ma torno con il mento sul palmo della mano quando mi rendo conto che non è il telefono sulla mia scrivania a squillare.
E ricomincio d'accapo. Nome, indirizzo, luogo sicuro, qualche arma? Andrà tutto bene.

Metà delle linee telefoniche sono occupate. Mi stupisco di quanta gente stia pensando di fare del male a se stesso, o a qualcun'altro, in questo momento.
Tiro fuori il cellulare dalla tasca degli skinny e accendo lo schermo.
Due chiamate perse da Calum, l'ultima un minuto fa. Dio, proprio quando metto il silenzioso quel bastardo decide di farsi vivo dopo giorni.
Letteralmente, ho provato a rintracciarlo in ogni modo: al telefono, a scuola, sono persino andato davanti a casa sua per avere sue notizie. Ma non si è mai fatto vedere dopo l'arresto di suo padre. Mali dice che sta passando un brutto periodo, si è chiuso in camera e a volte non esce per giorni, e tutto questo mi fa diventare matto. Vuole stare solo, è sempre voluto essere solo, ma in alcuni casi un amico fa bene. È psicologicamente provato.
Sono passati cinque giorni e mi manca. Forse più di quanto io manchi a lui. Vorrei solo che si lasciasse aiutare da qualcun altro, che decidesse di mettere da parte il suo egocentrismo per avere una spalla su cui piangere. Dio se mi fa diventare matto.

D'improvviso la cornetta sulla scrivania comincia a vibrare, e il suono di una chiamata irrompe nella stanza. Senza neanche pensarci o prendere il comando delle mie azioni, mi butto sul telefono e lo avvicino all'orecchio.
«Lifeline Australia, centro di prevenzione suicidio e supporto crisi. Che genere di aiuto le serve?»
E mi dimentico tutte le cose che avrei dovuto dire nell'attimo esatto in cui avrei dovuto dirle.

La voce dall'altro capo trema, sento un sospiro smorzato e poi un singhiozzo. Pure io sto tremando.
«C-credo di- di aver buttato giù troppe pasticche. Io– non so che fare, lui è stato portato via, ha ucciso suo padre, ed è colpa mia perché... perchè se io non fossi caduto quella sera adesso niente omicidio, niente prigione e niente prosopagnosia.»
La voce maschile che sta parlando la conosco fin troppo bene, e al sentire l'ultima, fatidica parola le mie palpebre si spalancano.
«Calum

Subito mi alzo dalla sedia, senza nemmeno chiudere la chiamata corro fino al parcheggio e metto in moto la macchina, sfrecciando verso casa Hood. Le mie mani, se possibile, tremano ancora più di prima. Il cuore batte all'impazzata, il mio corpo è un enorme cumulo di nervi e agitazione e paura che mi spingono a parcheggiare la macchina sul ciglio della strada, metà sul marciapiede, e di corsa raggiungere il portone d'ingresso per poi aprirlo con la forza con una spallata.

Controllo in soggiorno, ma non c'è nessuno. Salgo le scale. Spalanco la porta della stanza di Calum, quella di Mali, dei loro genitori, il bagno. Nessuno.
E allora, d'un tratto, mi chiedo come abbia fatto ad essere stato così stupido.

Di corsa torno in macchina, metto in moto, corro per le strade in un viaggio che dovrebbe durare solo una manciata di minuti, ma sembra infinito. Sydney è infinita. Maledetta città del cazzo.

Arrivo davanti al palazzo del 31 dicembre, neanche mi preoccupo di aver lasciato la macchina in moto e comincio a salire gli scalini tre alla volta, fino all'ultimo piano. Arrivo che non mi ricordo neanche più come si respira, le gambe andate, la fronte imperlata di sudore. Ma arrivo. Apro la porta che da sul terrazzo.
E lui è lì, steso a terra vicino al parapetto, le braccia spalancate e gli occhi chiusi. Percepisco la mia frequenza cardiaca non fare più tanto rumore; un silenzio spaventoso mi fa piantare i piedi a terra.

«Calum», sussurro. Non ho neanche più il fiato per dire qualcosa. Sono solo una foglia tremante.
Lui non si muove. Allora mi faccio forza e mi accovaccio al suo fianco. «Calum, riesci a sentirmi? Calum! Calum svegliati, cazzo! Non dormire, non devi chiudere gli occhi, svegliati!»
Niente. Tiro fuori il telefono e chiamo in fretta un'ambulanza, mentre controllo il battito cardiaco dal suo polso.
Non sento niente.

«Calum, ti prego» respirazione bocca a bocca, inclino la sua testa, tappo il naso con due dita, soffio. E di nuovo, e ancora. Niente.
«Per favore», sussurro «Svegliati». Lo distendo su un fianco per sbloccare le vie respiratorie. Poi gli infilo due dita in gola per fargli ricacciare tutta la merda che ha ingerito. Ancora niente.
Passano alcuni minuti prima che riesca a sentire le sirene dell'ambulanza, e continuo a spingere le dita nella sua gola, a cercare di farlo respirare, controllo il battito, e comincio a urlare per cercare di farmi sentire da lui, che sembra solo un guscio morto.

Arrivano i paramedici, lo caricano nella barella e lo portano via. Senza dire nulla, senza dirmi se se ne è andato, o c'è ancora speranza, o rispondere alle mie domande. Arrivano, identificano la sua identità e se ne vanno.
E io me ne resto qui. Da solo. A un passo dal parapetto. A un passo dalla morte. Solo vent'anni di vita e già l'ho vista in faccia troppe volte.
Mi prendo la testa tra le mani e inizio a piangere.

𝐂𝐎𝐔𝐍𝐓𝐃𝐎𝐖𝐍Where stories live. Discover now