Chapter 5: Cinnamon

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Aurora

Continuo ad osservare il volto scarno della ragazza davanti a me, sentendomi inghiottita dalle sue iridi spente e spettrali.
Non sembra affatto la persona che ho conosciuto e con la quale sono cresciuta per ben sedici anni.

Sono qui da ventisei minuti e nessuna di noi due ha spicciato parola. Come biasimarla.

«Allora... Cosa hai fatto oggi?» chiedo, un po' insicura. Le labbra della mia migliore amica si curvano impercettibilmente verso l'alto e annuisce. Lo faccio anch'io.

«È arrivata la cena!» Jennifer, una delle infermiere, entra nella stanza e lascia il vassoio sul tavolino affianco al letto. Le sorrido e lei mi rivolge uno sguardo simile a quelli che si fanno a una persona che sta per andare incontro a qualcosa di veramente brutto. Ma io ci sono già dentro, e da un bel pezzo.

Sharyl osserva il vassoio. Nessuna emozione traspare dal suo volto. Glielo avvicino e lei mette le mani davanti a sè, come a proteggersi. «No, no, no. Lascialo lì.»
Ingoio un groppo in gola e faccio come dice. «Scusa» borbotto. Lei sbatte le palpebre e non posso fare altro che mettermi le mani in grembo e resistere alla tentazione di piangere a dirotto.

«Avvicinalo» asserisce, allungando le braccia verso di me. Prendo ancora una volta il vassoio e glielo porgo. «No,» scuote la testa «Il tavolo, il tavolo».
Porto il tavolo più vicino al materasso e lei si mette a sedere, lentamente. Un braccialetto è legato attorno al suo polso così magro che rischia di scivolargli via e cadere a terra.
Faccio per togliere il coperchio del piatto, ma Sharyl urla un "No!" che mi fa rabbrividire.

«Scusa» dico di nuovo.
Non per la sua reazione, ma per non essere riuscita a salvarla quando ancora ero in tempo. Le chiedo scusa per averla lasciata annegare lentamente davanti ai miei occhi, senza aver fatto nulla.

«Ti prego Shy. Mangia.» Ricaccio indietro le lacrime tirando su con il naso.
È ricoverata in questo ospedale da poco meno di un mese. Tra circa una settimana verrà spostata in un centro specializzato per persone con disturbi alimentari e psicologici, e non posso fare altro che mentire a me stessa dicendo che tornerà la Sharyl di un tempo.
Fa male dirlo. Fa male anche il solo pensiero. Mai avrei potuto immaginare che la Sharyl solare e divertente che conoscevo si potesse trasformare in un fantasma. È sempre stata la persona più vitale che conosca, il raggio di sole che riusciva a rimettere a posto ogni brutta giornata. Sembra un'altra persona.
E io non riesco più a riconoscere la ragazza che ora è davanti ai miei occhi. Non ce la faccio. Non riesco a guardarla negli occhi e parlarle facendo finta di nulla.

I suoi demoni la stanno risucchiando e non mi permettono di aiutarla. Non le lasciano alcuna via d'uscita.

Il display del mio telefono si illumina. È un messaggio.

«Ti ha scritto lui?» chiede Sharyl. Ha cambiato discorso come suo solito. Scuoto il capo. «No, è un numero che non ho salvato in rubrica. Lo controllo dopo.»
Sharyl inizia a picchiettare le dita sulla superficie del tavolo. Il suo sguardo si perde verso il muro bianco e inizia a sedersi e alzarsi dal materasso, di continuo, andando a tempo con i borbottii incomprensibili che lasciano la sua bocca.
Asciugo una lacrima e mi rannicchio sulla sedia, stringendo le ginocchia al petto.

Mi sento così impotente davanti a tutto questo.
«Ti prego,» sussurro.
Sharyl non mi sente e il bicchiere sopra il tavolo cade a terra, rompendosi.
Inizio a singhiozzare. «Ti prego, Sharyl».
Ancora nulla.

Un'infermiera spalanca la porta della stanza, spaventata dal rumore del vetro che si infrange a terra, mentre Sharyl rimane immobile.

Ne approfitto per andarmene, iniziando a correre per i corridoi dell'ospedale mentre la vista si fa appannata per colpa delle lacrime. Le gambe mi tremano. Sono costretta a fermarmi davanti a dei distributori di snaks e sedermi in una delle sedie in plastica.
Non voglio pensare a nulla. Cerco di spegnere la mia mente fino a dimenticarmi del posto in cui mi trovo.

«Aurora?»

Ma non ci riesco.

Alzo lo sguardo, strofinandomi gli occhi con il dorso della mano. Mi sporco con il mascara. Non mi importa.
Un ragazzo è davanti a me, in piedi, con una bottiglietta d'acqua tra le mani e i capelli ricci tenuti a bada da una bandana rossa. Ashton Irwin.

«A-Ashton? Cosa ci fai qui?»
Si avvicina e gli faccio segno di sedersi al mio fianco.
«Sono qui per mio fratello. È praticamente allergico alla maggior parte dei cibi e anche il solo annusarli gli fa venire degli attacchi. Sono qui per questo», borbotta.
«Mi dispiace».
«Tranquilla, sta bene. Tu, invece, come stai?»
«Prossima domanda» mi asciugo un'altra lacrima e Ashton sospira.

«Ti ho fatto una richiesta di amicizia, su Facebook» ridacchia e la sua strana risata mi fa sorridere. Mi sposto una ciocca di capelli dietro l'orecchio e «Oh, ehm... Ho praticamente disinstallato Facebook dopo alcuni casini successi un po' di tempo fa», dico.

Ashton aggrotta le sopracciglia. «Che genere di casini?»
Sospiro, giocando con le maniche della mia felpa. «Diciamo che in ogni scuola c'è qualcuno che cerca di apparire superiore agli altri. E diciamo anche che quel qualcuno fa credere agli altri cose che, in realtà, non sono vere».

«C'entra qualcosa Calum Hood?»
«Come fai a saperlo?»
«La notte di Capodanno... Quando eravamo in quel pub hai detto che Calum era uno dei motivi per cui volevi... sì, insomma hai capito.»
«Parli della morte come se fosse un tabù».
«Forse mi piace farlo. Mi fa sentire ancora distante dalla fine, il capolinea.»
Annuisco. «Eppure volevi suicidarti anche tu».
«La mia vita è un'insieme di contraddizioni».

𝐂𝐎𝐔𝐍𝐓𝐃𝐎𝐖𝐍Where stories live. Discover now