Do Not Feed Sharks

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Sans p.o.v.

«Puoi anche smettere di ridere, lo sai?» Dissi morendo dalla vergogna, massaggiandomi la mia povera colonna vertebrale. Di fianco a me, la ragazza stava quasi ululando dal tanto ridere, tenendosi la pancia e piegandosi in due. Riuscì a smettere solo qualche minuto dopo, asciugandosi alcune lacrime di ilare divertimento dal bordo degli occhi, ancora scossa dai tremori delle risatine che riusciva a malapena trattenere.

«Potrei anche essermi fatto male, sai?» Le dissi imbronciato e con le guance in fiamme dal troppo imbarazzo. «Scusa, è che... Pff, hahaha... Sei scivolato in un modo troppo buffo!»

«No guarda, rifammi uno schemino, che non ho neanche capito cos'è successo.» Replicai ironico, ma lei mi prese in parola.
«Sei scivolato su quella parte liscia del tetto, ti sei alzato in aria spalancando le braccia come se stessi accogliendo Gesù tra le tue braccia e...»
«Mi sono spaccato la schiena, capito. Possiamo muoverci da qui?» Chiesi secco, dando un'occhiata alla città sotto di noi, in movimento come uno sciame di libellule frettolose.

Era martedì mattina, tutti correvano per andare a lavoro e portare a casa quel poco di soldi che permettevano a loro ed ai loro figli di mangiare.
Provavano un tipo di paura che io non avevo mai conosciuto, d'altronde il vecchio bastardo non aveva mai avuto problemi a guadagnare quei sporchi soldi, ancora inzuppati del sangue del loro ex proprietario.
Quasi tutti i Mostri che incontravo mi rinfacciavano spesso di vivere in una campana di vetro. Sì, in effetti avevo avuto fortuna a non nascere in una delle tante famiglie miserabili che popolavano i due principali territori dei Mostri. Peccato che quei coglioni non passavano le notti che passavo io, con la continua paura dei passi leggeri di Papyrus che si avvicinavano al mio letto... E dei suoi denti pronti a mordere la mia anima per puro sadismo. Solo per sentire le mie urla.
Istintivamente, mi toccai le costole nel punto in cui dentro c'era il "colmo del mio essere", come diceva affettuosamente Toriel, l'unica persona a cui WingDing Gaster era sottomesso, quando andavo costantemente a piangerle in grembo dopo esser stato malmenato da mio fratello. Era un gangster precoce.
La donna era stata la mia unica figura materna, dopo che nostra madre era scappata da WingDing. Non potevo biasimarla, anzi, avrei voluto fuggire anch'io con lei, lontano da quell'uomo spaventoso e da Papyrus, ma Helvetica Gaster non aveva mai avuto abbastanza soldi per tutti e due, me lo aveva spiegato prima di andarsene. Avevo otto anni, mentre la piccola merda ne aveva cinque. Neanche mia madre riusciva a sopportarlo. Diceva spesso che Papyrus era uguale a suo padre, che col passare del tempo sarebbe diventato perfino peggio di lui. Ci aveva azzeccato, che dire?

Dopo che Helvetica se n'era andata, mio padre si era infuriato in modo inimmaginabile. Aveva ordinato ai suoi uomini di trovarla, ma nessuno di loro ebbe successo: mia madre sembrava letteralmente sparita nel nulla. Pregavo ogni giorno per la sua salvezza e perché si facesse una nuova vita, che potesse essere felice. Papyrus, che l'aveva sempre disprezzata, si riferiva a lei solitamente con "quella grande troia", cosa che mi faceva imbestialire ogni volta che parlava di lei in quel modo. Ma cosa potevo fare? Lui era più forte di me, i suoi attacchi erano più potenti e la sua anima era più resistente. Era un essere dominante.

Mentre invece io...

«Dai, andiamo.» Il tono rilassato di Frisk mi fece ritornare alla realtà. Sul suo volto c'era ancora una traccia di divertimento, ma perlomeno aveva smesso di ridere. Guardai di nuovo la città sotto di me, i tetti e il suo viso. Al diavolo. Non avrei fatto un'altra figura di merda.

Velocemente l'afferrai per il braccio e ci teletrasportai davanti a casa di Alphys, una piccola villetta-laboratorio circondata da alte inferriate. Era un triste edificio grigio, con le finestre sempre con le persiane abbassate e con un giardino di cemento.
«Sans, avevi detto che non avresti usato il teletrasporto.» Notò Frisk, facendomi lasciare la presa con uno scossone. Mi allontanai velocemente da lei e suonai il citofono, con insistenza.
«Ma sei arrabbiato?» Chiese lei scrutandomi lateralmente. Non risposi e suonai di nuovo, infastidito.

«C-chi è?» Disse una voce femminile, tremante per l'ansia.
«Sans. Per piacere apri senza troppe storie, so che è con te.»
«M-ma lei... Ok, e-entra...» Balbettò lei, aprendo il cancello.
Scivolammo dentro, chiudendocelo alle spalle e ci dirigemmo verso la porta d'ingresso. Ci aprì di scatto il Mostro color mimosa dalle sembianze rettili e ci fece segno di entrare velocemente, come se la sua lingua fosse attaccata alla gola e non potesse parlare.
Poi, una volta dentro sembrò come per magia accorgersi della presenza di Frisk e iniziò a gesticolare impanicata.
«E l-lei chi è?!»

«Una mia collega, ci dobbiamo occupare del tuo pezzo di metallo. Dov'è la tua fidanzatina?» Chiesi sarcastico, analizzandola.
Era da un po' di tempo che non la vedevo, nonostante vivesse in quartiere. Indossava sempre lo stesso camice bianco e il solito vestito accollato a righe rosse e nere, i soliti occhiali. La solita espressione da paraculo.
Dal primo momento che l'avevo vista, tre anni prima, l'avevo etichettata come una delle persone meno attraenti e interessanti che avevo mai conosciuto. In quegli anni avevo la cattiva abitudine di avere troppe cotte impossibili, praticamente per qualsiasi essere femminile un minimo brillante. Perfino Catty.
Ma Alphys... Era inattuabile provare sentimenti per lei.

Perciò come aveva fatto Undyne a mettersi con lei? Mistero della vita.

Lei diventò di mille colori e scappò in un'altra stanza, strillandoci di aspettare all'ingresso. Misi le mani in tasca, mentre il silenzio avvolgeva la stanza. Mi girai verso Frisk, che era stata zitta tutto il tempo, solo per accorgermi che mi stava già guardando. «Hai bisogno di qualcosa?»

«Dovrei chiederlo a te.» Replicò lei, incrociando le braccia. Mi guardò con un'espressione di pietà, in quel momento seppi che aveva capito.
«Non ho bisogno di nulla.» Il mio finto tono spensierato era ridicolo, perciò tentai di fare un sorriso rassicurante.
Lei non sembrò affatto credermi, ma prima che potesse ribattere dei passi pesanti risuonarono nella stanza chiusa in cui era entrata Alphys. La porta si aprì violentemente e il demone acquatico si fece avanti, minacciosa, mentre l'altra aspettava dietro di lei, balbettando qualcosa sul fatto che non si potesse alzare e camminare in quel modo. Ma Undyne non l'ascoltò e si piazzò davanti a Frisk, squadrandola come se si stesse chiedendo come l'avrebbe uccisa.
La sua pelle squamata era umidiccia e in preda ai tremori, il petto era tutto fasciato, che si alzava e si abbassava ad un ritmo allarmante. Indossava solo un paio di pantaloni neri di velluto. Il suo braccio destro non c'era più.

«Vedo che la scatola di metallo ti ha fatto il culo.» Commentai tranquillamente.

I Ain't No Kid, Pal (Mafiafell Frans)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora