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Nella stanza era stata accesa una lampadina. Pendeva nuda dal soffitto, stagliandosi su di una cornice di cemento grezzo, illuminando fiocamente la zona che le era appena sottostante, riuscendo a rischiarare a malapena il centro dell'ampio ambiente, senza riuscire ad arrivare agli angoli, che continuavano a perdersi nell'oscurità. La luce giallognola appariva pallida e smunta, probabilmente a causa della sporcizia che oscurava il vetro della lampadina. Neppure la pavimentazione, anche quella rivestita da cemento, veniva rischiarata granché: i flebili fasci luminosi arrivavano sfumati e tanto sbiaditi da dare come l'impressione di essere rinchiusi all'interno di una bolla sospesa nel vuoto.

Ryan si teneva a debita distanza dal raggio della lampadina, rimanendo celato alla vista, nascosto nell'oscurità. Porsi sotto la luce lo avrebbe fatto sentire messo in risalto, invece, continuare a nascondersi nel buio lo faceva illudere di potere conservare la speranza di non essere visto e, quindi, di non essere trovato.

A differenza sua, Bryan stava disteso proprio su quella porzione di pavimento scarsamente illuminato. Da quando aveva ripreso del tutto conoscenza, dopo che i lasciti del narcotico si erano esauriti, non aveva smesso un secondo di piangere, fissando con ostinazione la luce sopra di sé. Non gli aveva rivolto più parola dopo che aveva saputo l'identità della persona che li aveva rapiti. Se il giovane si stava comportando in quel modo perché accusava lui della situazione in cui erano, Ryan non poteva saperlo, perché l'amico si rifiutava di ammetterlo, ma credeva fortemente che la ragione del suo mutismo fosse da ricercare in quella causa specifica.

Sospirò e chiuse gli occhi, poggiando la fronte contro le braccia, che teneva sulle ginocchia. Faceva freddo ed era incredibile dato che, fuori di lì, era ancora luglio, faceva ancora caldo.

Era trascorsa appena una settimana dal matrimonio di Keith e quella parvenza di spensieratezza che lo aveva accompagnato durante quel giorno sembrava essersi perduta chissà dove, chissà quando, senza che lui se ne accorgesse.

Come avesse fatto suo fratello a fare evadere Rozaf per Ryan restava un mistero al quale non voleva neanche trovare risposta, l'unica certezza che aveva era appunto che tutto quel casino doveva essere opera di Redonald. Il clan era stato smantellato dall'F.B.I. due mesi prima, ma il giovane immaginava che a suo fratello non mancassero di certo "amici" pronti ad aiutarlo e a portare avanti la sua missione, magari in cambio di qualche favore.

Chi erano quelle persone?

Ne aveva conosciute parecchie durante il periodo in cui aveva vissuto al suo fianco, soprattutto durante gli anni trascorsi a New York, costretto a spalleggiarlo durante gli incontri pochi piacevoli con alcuni di quegli uomini – e qualche donna non meno pericolosa – con i quali Redonald condivideva gli stessi ideali.

Potere.

Soldi.

Sangue.

Famiglia.

Onore.

"Famiglia" si ripeté Ryan tra i pensieri e un brivido gli corse lungo la schiena, serrandogli la gola in una morsa dolorosa, "È famiglia, questa?" si chiese, percependo gli occhi riempirsi di lacrime pungenti.

-Famiglia- si sorprese a sussurrare.
-A chi ti riferisci?- gli domandò Bryan e il giovane sussultò, non aspettandosi che l'amico gli rivolgesse la parola.
-Alla mia-
Bryan rise con amarezza e, come se non ricambiare il suo sguardo non fosse abbastanza, girò il viso verso l'oscurità alla sua destra, sul lato opposto rispetto quello da cui gli arrivava alle orecchie la voce di Ryan.

-L'onore. Il legame indissolubile del sangue-
-Non c'è onore in quelli della tua razza- sibilò Bryan con fare sprezzante e l'altro rabbrividì, accarezzandosi una gamba con fare distratto, in cerca di conforto – forse.

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