XLVII. Elegia

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Ventadour osservò il viso bianchissimo di Smokey, faticando a metterlo a fuoco attraverso un velo di lacrime

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Ventadour osservò il viso bianchissimo di Smokey, faticando a metterlo a fuoco attraverso un velo di lacrime. C'era una nuova dolcezza in quei lineamenti, che nonostante la rigidità della morte parevano essersi fatti meno affilati, e perfino le labbra esangui erano atteggiate in una parvenza di sorriso.
Avrebbe solcato ogni cielo e affrontato centinaia di armate solo per vederle dipinta in viso un'espressione così serena quand'era ancora in vita, ma ora neanche il pensiero che Letitia si fosse riconciliata con sé stessa era in grado di consolarlo.

In quel momento, chino sul corpo ormai freddo della donna che aveva amato per un tempo troppo breve, pensò che non avrebbe mai più ritrovato qualcosa di altrettanto prezioso.
Qualcuno gli batté una pacca sulla spalla, ma alla fine fu la voce del reverendo Lloyd a riscuoterlo dal suo torpore. 
«È ora» disse, e solo allora Ventadour si ricordò di non essere solo sul ponte dell'Argon.

I compagni di Smokey – i suoi amici, i sodali di mille avventure – erano riuniti in un semicerchio alle sue spalle per darle l'ultimo saluto, prima che il suo corpo fosse inghiottito dalle acque gelide dell'Oceano Atlantico. L'uomo sentì crescere nel suo animo un repentino e violento moto d'egoismo: avrebbe voluto poter cristallizzare quell'istante in eterno, per continuare a fissare il viso di Smokey e supplicarla in silenzio di aprire l'occhio buono. 

Voleva che lei tornasse a guardarlo con lo sguardo colmo di quel sentimento nato in fretta.

Voleva ascoltare di nuovo il suo respiro leggero nel buio della sua cabina, cullati dal rollio dell'aeronave.

Voleva...

Ventadour si tirò indietro con uno scatto, come se l'unico modo per lasciarla andare fosse strapparsi da lei con convinzione e non posare più lo sguardo sul corpo ricomposto con cura, vestito della sua giacca migliore e deposto su quello scarno pancale di legno.
Qualcuno le aveva intrecciato le mani attorno all'impugnatura dell'unico karambit che erano riusciti a recuperare dalla caverna distrutta e le aveva messo al collo una collana di perle dalla fattura un po' fuori moda.
"Cosa significava per lei?"
C'erano così tante cose che non avrebbe avuto il tempo di scoprire, piccoli dettagli che lo riempivano di rabbia e dolore. Gli stessi sentimenti che vedeva riflessi negli occhi di coloro che avevano accompagnato la salma di Smokey nel suo ultimo viaggio che terminava lì, nel mezzo dell'Oceano Atlantico, al largo di Baltia.

C'erano il burbero timoniere e il reverendo dall'aria losca, la macchinista col volto rigato di lacrime e i due marinai superstiti – bizzarri nel loro essere spaiati, quando Ventadour l'aveva sempre identificati come i due gemelli e il terzo. C'era persino Messalina Seymour, con l'ala destra ancora danneggiata e abbandonata mollemente contro la schiena: aveva scalato con perseveranza la scala di corda per salire a bordo dell'Argon, pur di essere lì. 

Solo Blackraven si era rifiutato di venire.

Quando avevano trovato il corpo di Smokey, Ventadour lo aveva visto andare su tutte le furie e perdere ogni traccia di buonsenso, convinto com'era che Letitia si fosse lasciata morire quasi di proposito, arrendendosi al senso di colpa che la perseguitava da vent'anni.
E sebbene il francese sapesse che era il dolore a farlo a parlare in quel modo – e che sempre il dolore gli aveva impedito di assistere a quella funzione – non credeva che sarebbe mai riuscito a perdonargli quell'assenza.
Baltia aveva spezzato tutti loro in maniera più o meno evidente, ma nessuna ombra era profonda e scura come quelle che si erano addensate negli occhi del capitano dell'Argon: del gentiluomo affascinante che Ventadour aveva conosciuto diversi mesi prima non era rimasta alcuna traccia.

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