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A dodici anni, Atlas decise di voler insegnare anche lui qualcosa a Leander. Prese un bastone di legno e ne diede un altro a lui, poi si mise in posizione.

«Attaccami», disse facendogli segno di avanzare.

Leander era confuso, osservava i bastoni e corrugava la fronte.

«Ma che stai dicen-» non ebbe il tempo di finire la frase, Atlas fece un balzo in avanti e ruppe la sua debole guardia prima di dargli una leggera bastonata sul fianco.

«Morto», esclamò ridendo, tra le imprecazioni dell'altro.

Così Leander prese la cosa sul serio. Per quanto fosse più basso e meno muscoloso, ad Atlas era stato insegnato a combattere più o meno da quando aveva iniziato a camminare. Era veloce, era agile e soprattutto era astuto. Riusciva a capire le strategie d'attacco dell'altro nel giro di quattro mosse e alla fine Leander si ritrovava sempre con qualche livido più dell'amico.

«Prima o poi ti batto», sputava a fine giornata senza riuscire a nascondere un sorriso.

Quando era troppo stanco, Atlas gli insegnava a leggere.
Iniziarono con libri semplici, in cui le parole erano grandi e chiare sulla pergamena ruvida.
Una per una, il principe gli indicava tutte le lettere dell'alfabeto e Leander le ripeteva mettendoci più impegno che poteva. Dopo una settimana, riuscì a leggere piccole frasi; dopo due settimane riuscì a leggere, seppur lentamente, una pagina intera.

«Tra poco riuscirai a scrivere», esclamò Atlas entusiasta. Era felice, Leander non riusciva a pensare ad altro se non a quanto avrebbe voluto saper già scrivere per vederlo sorridere ancora in quel modo.

A tredici anni, per la prima volta dopo due anni di amicizia, Atlas convinse Leander ad andare con lui al castello per conoscere i suoi genitori.
Il fabbro si era rifiutato giorno dopo giorno, convinto di non appartenere a quell'ambiente.

"Mi prenderanno per un pezzente", continuava a dire sbuffando.

Atlas aveva provato in tutti i modi a fargli capire che i suoi genitori non erano sovrani superficiali come lui credeva, alla fine aveva giocato la carta della tenerezza.

«È il mio compleanno», borbottò con la sua migliore faccia da cucciolo. «Ci sarà un sacco di gente noiosa, ma si mangerà davvero bene. E poi il nonno ha detto che ci sarà!»

«Cosa?!» Leander quasi si strozzò con il latte che stava bevendo. «Hai invitato anche nonno?»

«Ovvio, te l'ho detto! È il mio compleanno, sono tutti invitati. E poi papà si ricorda delle sue armature, non vede l'ora di rivederlo.»

Per un piccolo, folle secondo Atlas pensò che Leander volesse ucciderlo. Riusciva quasi ad immaginare la lotta interiore dentro di lui, poi lo vide alzare il viso con aria sconfitta prima di borbottare qualcosa di incomprensibile.

«Che...eh? Non ho capito...»

«Non ho niente da mettere, Atlas!»

Il principe nascose un sorriso intenerito, poi lo prese per mano trascinandolo oltre il fiume.

Entrarono al castello da un ingresso nascosto, Leander si guardava intorno come se fosse stato improvvisamente trasportato nel futuro. Sfiorava con le dita le armature ornamentali, gli arazzi colorati, i dipinti e le mattonelle di pietra decorata.

Atlas lo spinse oltre una porta e Leander non fece in tempo a lamentarsi, si ritrovò nella camera del principe e per un attimo si chiese come fosse possibile avere una stanza tanto grande.

Un pavimento di legno chiaro illuminava l'ambiente altrimenti incupito dalla pietra scura, le pareti erano tappezzate di dipinti e librerie colme di libri e al centro della stanza un enorme letto a baldacchino con tende leggere color avorio accoglieva un materasso dall'aria incredibilmente morbida.
In fine, ai lati del letto, grandi armadi spaziosi contenevano gli abiti del principe.
Atlas prese a tirarne fuori di ogni tipo.

Written in the starsWhere stories live. Discover now