365 giorni al 7 luglio

All'apparenza, Izuku Midoriya era un ragazzo come tanti: brillanti occhi verdi, ricci dello stesso colore ed una spruzzata di lentiggini sul naso leggermente schiacciato.

Studente dell'accademia di belle arti di Tokyo, Izuku era uno di quei ragazzi ossessionati dai dettagli che spesso perdono di vista la trama di un film perché sono troppo occupati a studiare il modo unico e particolare con cui i capelli della protagonista si intrecciano alla collana che indossa.

Amava ogni forma d'arte, era un prodigio con qualsiasi strumento gli capitasse tra le dita nonostante avesse un debole per il rozzo carboncino sul cartoncino; era fin troppo frequente trovarlo con le dita sporche di nero a riprodurre scene di vita quotidiana davanti al quale nessun altro si sarebbe fermato.

Portava i suoi ventitré anni con leggerezza, in quel modo un po' maldestro che si usa anche per tenere in mano le cose di vetro senza davvero curarsi dell'idea che possano cadere e rompersi.

Agli occhi di molti poteva sembrare noncuranza, la realtà era che Izuku era un'anima di circa duemila anni incastrata nell'ennesimo corpo maledetto.

Perché sì, lui era perfettamente consapevole di essere un principe condannato all'eterna ricerca della felicità, il Dio del Sole era stato premuroso nell'assicurarsi che non dimenticasse mai di essere stato punito per la sua insolenza.

E così lo aveva cercato, anno dopo anno, vita dopo vita, corpo dopo corpo.
Aveva cercato ovunque il tassello mancante a quel puzzle intricato, il viso che avrebbe dato un senso a quell'amore così forte che provava e a cui non sapeva dare forma.

Ogni volta aveva fallito, moriva solo e nasceva solo, punto e a capo.

Sbuffò distrattamente, la sveglia segnava le 7:30 del mattino ed il sole aveva iniziato a fare capolino tra le fessure delle tapparelle per puntarsi dritto nei suoi occhi.

«Ma non ti stanchi mai di tormentarmi», sbottò rivolto a quella luce.

Gli Dei avevano smesso di avere potere sulla terra il giorno in cui l'uomo aveva smesso di credere in loro; lentamente ognuno si era fuso al proprio elemento.
Così suo padre era tornato ai cieli, il Dio del Sole era una palla di fuoco che dava vita al mondo, eppure Izuku continuava a rivolgere a lui tutte le sue frustrazioni più come sfogo che per altro.

Scostò malamente il piumone e mise i piedi nudi a terra rabbrividendo appena per il contatto con il pavimento freddo, la sveglia suonò di nuovo.

La spense distrattamente e si avviò in cucina con l'aria stravolta, Shoto era già in piedi vicino ai fornelli. Si voltò a guardarlo, Izuku si sciolse in un sorriso.

Il suo coinquilino aveva ventitré anni, si era laureato da poco e da allora aveva intrapreso il sogno di diventare uno scrittore.

Oltre ad essere diventato il suo migliore amico, era anche il soggetto preferito di Izuku; benché non avesse mai fatto il modello, Shoto aveva una delicatezza ed una bellezza eterea che l'amico non riusciva a non rappresentare su qualsiasi superficie gli capitasse a tiro e con qualunque strumento che fosse in grado di produrre una linea.

Era alto, longilineo e all'apparenza fragile. Nascondeva un corpo allenato sotto morbidi dolcevita e jeans aderenti anche se in quel momento indossava solo un paio di pantaloncini blu ed una maglietta bianca che raffigurava Bart dei Simpsons.

I suoi capelli erano di base rossi, ma lui li aveva divisi a metà ed aveva tinto la sinistra di un bianco candido per accentuare quella che era sicuramente la caratteristica che lo distingueva da qualsiasi essere umano intorno a lui.

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